The Jesus and Mary Chain – Glasgow Eyes

Da quel 1984 in cui gli intraprendenti fratelli Reid si mossero per trasferirsi nella capitale britannica di decenni ne sono passati. Il produttore Alan Mc Gee (che meno di 10 anni dopo scoprirà gli Oasis), prenderà sotto la propria ala protettrice i due ragazzi provenienti dalla suburbana Glasgow che insieme a Douglas Hart (bass) e Murray Dalglish (drums) completeranno la formazione. I primi spettacoli che non duravano neanche più di una decina di minuti, ove strati di distorsione e feedback erano le fondamenta di un suono urticante capace pian piano di trovare un imprevedibile propensione verso le affascinanti e briose melodie dei Beach Boys.

“Upside Down” e “ Never Understand” sono i primi passi di un genere stridente quanto oscuro, che riesce a coinvolgere e a stimolare chi è in cerca di sensazioni che graffiano ed elementi sonori disfunzionali che condite con tematiche oscure, danno vita alla belligerante novità in cui molti speravano. Un atteggiamento fuori dal comune che ha portato la band ad inventare quel “guardare le scarpe” (shoegaze per l’appunto), che farà da ispirazione a My Bloody Valentine o ai Catherine Wheel tra i tanti, in cui l’indietronica commista a voci sognanti, getta le proprie fondamenta su di un muro del suono, dove riverberi e voci solennemente evocative annunciano scenari lontani ed illusori.

PSYCHODANDY del 1985 è il primo lavoro in cui la band scozzese condensa al meglio la lezione impartita dai Velvet Underground e dal punk ben assimilati al trapasso simbolico del dramma umano dei Joy Division di Ian Curtis. Un disco che propone una formula diversa dalle altre esprimendo originalità sotto ogni aspetto, in cui chitarre distorte che sanno di garage riescono a fondersi con tratti di psichedelia rispettando il formato canzone, con melodie urticanti inebriate di sapori pop in grado di abbellire senza indugi. DARKLANDS (Warner Bros – 1987) si presenta come un lavoro (diciamo) dal sapore più cantautorale, quasi a voler sovvertire l’impressione di genialità ribelle percepibile dall’esordio, mentre AUTOMATIC di due anni più tardi, riesce anche imprevedibilmente a coinvolgere per via di un sound maggiormente muscolare ed atmosfere ferruginose che elaborate a dovere avrebbero giovato alle ininfluenti pubblicazione della decade successiva.

GLASGOW EYES pur se parte integrante di una discografia da studio fatta di 8 album, è per la band il secondo disco del nuovo millennio e che si  presenta per i TJAMC come un’occasione per ricordare almeno agli affezionati del passato,  quanta volontà e capacità ci siano in artisti che ricoprono con consapevolezza il ruolo di padrini di un genere fatto di sonorità post-punk, vibrazioni caotiche e (oggi ancor di più) di drum machine, quanto sia importante rinnovare per quanto possibile il proprio stile senza finire imprigionati in un’operazione nostalgia. Non è assolutamente facile ripresentarsi al proprio pubblico a 7 anni dal dignitoso DAMAGE AND JOY (Artificial Plastic Records) portando avanti richiami a Suicide e Kraftwerk, ritmica robotica senza dimenticare né distorsioni, vocalizzi disturbanti avviluppati a quei saldi riferimenti fatti anche di Velvet Underground e Stooges.

Basta far partire il tasto play e lasciarsi coinvolgere dalla frenesia di “Venal joy” con synth trascinanti e un ritmo cadenzato che insieme danno vita ad un vortice di piacere da cui è difficile non farsi coinvolgere. La chitarra grattugiata di “merican born” mostra pur nella sua ripetitività, un brano beffardo che strizza l’occhio alla new wave, così come l’aria soffusa di “Discotheque” e “ Silver Strings  pur dimostrandosi in linea con l’atmosfera caliginosa che le distingue, con difficoltà alza l’asta del gradimento. A far da contraltare ci pensano le pulsioni rumoriste di “Mediterranean X film” perfetta come sottofondo ad uno scenario apocalittico, mentre la lentezza drammaticità di “Chemical animal”scava nel più profondo dell’animo umano rivelandosi terapeutica per fuoriuscire da uno strato di trance, facendo di “Pure poor” un perfetto concentrato di dissonanze in cui perdersi  e ritrovare se stessi. Il gruppo scozzese non manca di tributare a proprio modo il buon sano e vecchio rock con “Girl 71”, Una manciata di brani per tributare a proprio modo il caro e sano universo rock, il gruppo di Glasgow se lo riserva con “Girl 71” (in cui il richiamo ai Judas Priest sembra ben più che un’illusione del sottoscritto), “Hey Lou Reid” (non solo un gioco di parole dei fratellini di East Kilbride), mentre sotto il disorientante titolo di “The Eagles and The Beatles” prende forma una spudorata e divertente nuova versione di quella “I love rock’n’roll” con cui Joan Jett & The Blackhearts nel lontano 1981 si garantirono notorietà ed affermazione non solo su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Quest’album magari non porterà ad allargare la fanbase e né essere considerato un caposaldo della discografia, ma metterlo sul piatto potrà essere considerato come ritrovarsi di fronte alla bella fiamma di un tempo, ma che con l’esperienza raccolta porta ad accorgerti anche di quei dettagli meno graditi che non faranno contenere la giusta dose di riconoscenza che merita, senza cercare il   “fissare i piedi” sempre e comunque.

CLAUDIO CARPENTIERI

Tracklist:
 1.  Venal Joy
 2. American Born  
 3. Mediterranean X Film
 4. Jamcod
 5.  Discotheque
 6. Pure Poor
 7. The Eagles and The Beatles
 8. Silver Strings
 9.  Chemical Animal
10. – Second Of June
11. Girl 71
12. Hey Lou Reid

Credits:
Pubblicazione: 22 marzo 2024
label: Fuzz Club – Cooking Vinyl
distribuzione: Egea Music – The Orchard

0
/10
VOTO

Band:
Jim Reid – vocals, guitar, bass 
William Reid – guitar, bass, vocals
Mark Crozer – bass 
Scott Von Ryper – guitar
Justin Welch – drums

https://themarychain.com
https://www.facebook.com/JesusAndMaryChain
x.com/themarychain
www.youtube.com/@jesusandmarychainofficial
instagram.com/jesusandmarychain