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Vulìo: Joe Barbieri ci racconta la sua personale canzone napoletana

Vulìo: Joe Barbieri ci racconta la sua personale canzone napoletana

“Vedi Napoli e poi muori” sosteneva il filosofo tedesco Goethe, innamorato della bellezza letale di questa città.
Un desiderio incondizionato che Joe Barbieri eleva in Vulìo, ode alla canzone napoletana.

Joe Barbieri, cinquant’anni, ben mezzo secolo di cui più della metà speso sul campo. Trent’anni di onorata carriera e dieci dischi in studio registrati, undici contando “Vulìo“, la tua più recente impresa. Tu più di molti altri potrai rispondere alla seguente domanda: come è cambiato il modo di fare musica dagli anni novanta ad oggi?

C’è più edonismo, una maggior sensazione (sbagliata) di bastare a sé stessi.
Ci si chiude nel proprio ideale angolo di paradiso, mentre la musica è partecipazione, condivisione, apertura.

Hai qualche rimpianto per il passato oppure sei uno che guarda sempre in avanti?

Direi più al presente, o al massimo ad un futuro immediatamente prossimo.
I rimpianti sono perdite di tempo, non servono a cambiare nulla.
Meglio dedicarsi alla politica dei piccoli passi (come propongono i giapponesi): coerenti, credibili e qualitativamente in crescendo.

Trovo diverse analogie tra il tuo modo di fare musica e quello dell’immortale Pino Daniele, artista che ti ha scoperto ed è stato tuo mentore. Quanto ha influito questo significativo lascito sul tuo percorso curricolare?

Io nasco come suo fan, dunque per me Pino è sempre stata una guida morale e stilistica. Il suo voler guardare al “diverso” mi ha sempre influenzato e dunque cerco di portarlo nel mio modo di fare musica.

TuttaviaVulìo” risente particolarmente dell’influsso di un altro cantautore, ovvero Roberto Murolo, dico bene?

Più del Roberto Murolo interprete, in verità… scarno, essenziale, rigoroso.
Ho cercato di guardare al suo insegnamento e a quello di
João Gilberto.

La città di Napoli riveste un ruolo molto importante all’ interno del disco che in effetti si potrebbe definire una celebrazione della musica partenopea con 16 brani di repertorio che incarnano a pieno lo spirito della sua gente. Come mai celebrare il capoluogo campano proprio ora?

Lo avrei potuto fare in qualunque altro momento: questa celebrazione affiorava alle mie labbra continuamente, spingeva con amore per vedere la luce.
Ma mi sentivo, e tutt’ora mi sento, sempre inadeguato ad affrontare questo repertorio, così totemico ed importante.
Saranno stati i 50 anni che mi hanno fatto cedere a questa tentazione, a questo abbraccio d’amore.

Vulìo” è un termine forte, come mai la scelta è ricaduta proprio su questo nome?

Perché significa ‘desiderio’. E come ho appena detto questo desiderio di abbracciare la canzone napoletana l’ho sempre conservato in una tasca molto vicina al cuore.

Che criterio hai impiegato per la scelta dei brani?

Quella semplicemente dell’istinto: la canzone napoletana è un pozzo senza fondo di bellezze, qualunque cosa avrei pescato sarebbe stata meravigliosa. Ho cercato tuttavia di non fermarmi ai brani più in bianco e nero, ma di spingermi fino alcuni brani di colleghi che secondo me hanno scritto già i futuri classici.

Il pubblico napoletano ti accoglie sempre con grande calore ed affetto, mi chiedevo però se avessi una particolare venue che più di ogni altra ti è rimasta nel cuore?

Una tra le altre, potrebbe essere la Rotonda Diaz, sul lungomare. Quella notte ho cantato guardando il mare, con Capri e la penisola sorrentina in lontananza.
Non
esattamente una cosa da tutti i giorni.

Quali le differenze di percezione [da parte tua] rispettivamente al pubblico italiano e quello straniero?

C’è un pubblico attento e un pubblico distratto ovunque. Ho potuto sperimentare la gentilezza e l’attenzione, appunto, del pubblico tanto suonando dall’ altra parte del mondo quanto qui da noi. Talvolta viviamo una sensazione d’inferiorità in questo senso che dovremmo un po’ rivedere.

Per la realizzazione hai collaborato con i chitarristi Oscar Montalbano e Nico Di Battista, ci vuoi raccontare come avete lavorato la parte di arrangiamento?

Dunque io sono arrivato con dei canovacci di strutture dei brani per chitarra e voce abbastanza definiti. Poi semplicemente abbiamo suonato, suonato e suonato. Avendo tutti noi ben chiaro che dovevamo continuare a togliere per trovare il giusto equilibrio tra tre chitarre, per quanto avevamo dalla nostra tre suoni del tutto diversi.

Il disco ed alcuni live sono stati dedicati a Giovanbattista Cutolo, musicista 24enne ucciso per proteggere un amico durante una violenta lite avvenuta in in una paninoteca in Piazza Municipio a Napoli. Me ne vuoi parlare?

Giògiò era ed è un collega ed un napoletano volenteroso e luminoso. Mi fa piacere avere lui come uno tra gli esempi di napoletanità operosa e brillante alla quale guardare.

C’è un messaggio che vorresti far passare alle nuove generazioni di musicisti?

Si: lavorate, lavorate, lavorate. Il colpo di fortuna, che pure è un aspetto che ha il suo peso nel computo totale, è tuttavia un falso mito per come viene percepito. Cercate invece la vostra calligrafia, la vostra voce unica, e lavorate intorno a quella. La cultura dell’impegno è l’unica sulla quale valga la pena veramente investire.

 

SUSANNA ZANDONÀ