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VINCENZO INCENZO – Intervista al cantautore, scrittore, regista e autore romano

VINCENZO INCENZO – Intervista al cantautore, scrittore, regista e autore romano

In occasione dell’uscita del nuovo album “Comizi d’amore” (Verba Manent, distribuzione Artist First), ho avuto il piacere di intervistare Vincenzo Incenzo, cantautore, scrittore, regista e autore per alcuni dei più grandi artisti italiani come Renato Zero, Lucio Dalla, Antonello Venditti, Sergio Endrigo, Michele Zarrillo, Franco Califano, Patty Pravo, Ornella Vanoni, PFM, Tosca e tanti altri. Il disco è il diario sonoro degli ultimi concerti che Vincenzo Incenzo ha tenuto in Italia, sia da solo con pianoforte e voce che con Jurij Ricotti (chitarre), Gianfranco Mauto (tastiere), Minji Kim (soprano) e con gli interventi agli archi di Enrico Renzi e Gennaro Della Monica. L’album contiene inoltre l’inedito-manifesto “Comizi d’amore”, pensato per pianoforte ed archi, una dedica appassionata e struggente d’amore e di impegno.

Ciao Vincenzo, benvenuto su TuttoRock, parliamo un po’ di questo tuo nuovo album “Comizi d’amore”.

Ciao Marco, è un album un po’ fuori dalle tendenze del momento, uscire con un disco acustico in un periodo come questo è un’operazione rischiosa, però mi piaceva l’idea di riportare le canzoni al loro stato originario, al momento in cui erano state scritte, questa era la mission. Anche i concerti che ho fatto e dai quali sono stati estratti i brani sono stati tutti su questa linea, con un rapporto molto vicino con il pubblico, con un solo strumento o al massimo tre, c’era una volontà precisa di riportare la canzone alla sua nascita.

Un album coraggioso anche per la sua durata, circa un’ora e un quarto, in un periodo storico frenetico in cui tutto e tutti vanno di corsa.

(ride – ndr) Mi sono dovuto fermare perché il cd ha una capienza limitata e sono rimasti fuori alcuni brani. Nelle scalette dei miei concerti faccio ruotare i brani tra una sera e l’altra, nell’album, purtroppo, ho dovuto escludere un brano fatto con la PFM, un altro con Renato Zero, magari vediamo più avanti se sarà il caso di replicare. L’idea che un po’ mi stimolava era che, suonate così con il pianoforte, le canzoni sono fuori dal tempo, non si legano ad un arrangiamento che tra un paio di anni potrebbe risultare vecchio, fatte così rimangono congelate in un tempo non precisato.

Il video che accompagna la traccia che dà il nome all’album è un video semplice ma efficace, che vuole dar spazio alla musica, in bianco e nero, è nato da una tua idea?

Sì, mi rendevo conto man mano che costruivo questa canzone qualunque cosa disturbava quello che la stessa canzone raccontava. Ho fatto un primo lyric video perché volevo che le parole arrivassero semplici e dirette, con uno sfondo che mi è stato regalato in aereo. Stavo andando in Colombia e c’era un cielo che cambiava continuamente, ho messo questo frame fatto con il cellulare che durava esattamente quanto il tempo della canzone, è stato magico come momento quando ho sovrapposti immagini e suoni. Sono andato avanti per un mese con quel video senza attori e location poi mi è sembrato giusto far vedere i musicisti che suonavano con me, essendo un brano suonato con pianoforte e quartetto d’archi, con qualche piccola incursione in questo temporale notturno a Roma in cui sono uscito con il cellulare riprendendo quei momenti. È stata una cosa semplice perché per me la canzone bastava, oggi, purtroppo, bisogna per forza veicolare tutto con le immagini ma in questo caso per me non aveva senso.

Essendo autore per molti artisti, sai già chi canterà una tua canzone negli stessi momenti in cui la stai scrivendo?

Guarda, difficilmente preparo cose prima dell’incontro con l’artista, quando scrivo per me è facile, decido di concentrarmi su me stesso e comincio a buttare giù idee e parole, prendo sempre appunti, è un lavoro continuo. Alla fine, quando mi siedo al pianoforte, ho già molto materiale pronto. L’approccio quando scrivo per altri è lo stesso, ho sempre l’atteggiamento del cantautore, quello mi aiuta ad essere più credibile con me stesso. Quando penso che quella cosa la potrei cantare anch’io ho un parametro molto più attendibile di autocritica con me stesso. La canzone per un artista arriva quando c’è l’incontro con lui, se oggi pomeriggio dovessi incontrare Renato Zero cominceremmo già a parlare di alcune cose e diventerebbe più naturale tornare a casa con un obiettivo mirato, non sono uno di quegli autori che preparano cinquanta cose e vanno in giro con la valigetta e dicono “questa la potrei dare a questo”, non sono mai riuscito a fare quel tipo di percorso, ho sempre lavorato come un sarto che cuce il vestito addosso all’artista anche perché ti arrivano stimoli diversi, hai un input più forte e, conoscendo la persona, cambia tanto. Non è un caso che le canzoni più conosciute che ho scritto siano state per Renato Zero e Michele Zarrillo che sono anche dei grandissimi amici, quando si crea prima di tutto un grande feeling a livello umano dopo diventa tutto più facile.

Tra tutti i brani scritti da te ce c’è uno in particolare che mi ha sempre emozionato moltissimo, ed è “L’elefante e la farfalla”, mi racconti la sua genesi?

Come stranamente accede in queste situazioni, uno perde tanto tempo poi arriva un lampo e la canzone viene giù tutta insieme. Michele era a casa mia, stava provando una successione di accordi con un tempo sostenuto, si metteva lì per ore e ore con questo giro un po’ ipnotico ed è uscita fuori la parola elefante, così tanto per trovare una scansione metrica. Da lì mi si è aperto il mondo, è venuto giù il testo tutto insieme, scrivendolo mi sono reso conto che si trattava di un testo che volevo scrivere da sempre, era la sintesi perfetta di quello che volevo dire con le canzoni, il fatto di potersi elevare al di sopra delle proprie fragilità, raccontarsi ad un’altra persona e farle capire delle cose attraverso un codice che non sia la parola detta o la postura ma un linguaggio superiore, creare un feeling con quella persona che ti permetta di raggiungerla anche se tu quella persona non potrai mai averla. In poche parole, permetterti di comunicare qualcosa di più grande di te. Molte volte per inadeguatezza, pudore, paura, si ha una reticenza nel confidare i propri sentimenti a qualcun altro. Mi sono poi reso conto che, al di là di un discorso legato ad un amore impossibile, poteva allargare il suo raggio e parlare di quelle situazioni in cui qualcuno è in difficoltà e cerca aiuto negli altri, parlo soprattutto di persone con difficoltà fisiche. Anche per me è un momento chiave, uno spartiacque nella mia produzione, una delle canzoni più importanti e che sento di più. È una di quelle volte in cui non c’è scollatura tra quello che volevo scrivere e che effettivamente ho scritto, se tornassi indietro nel tempo la riscriverei esattamente così.

Quando e com’è avvenuto il tuo avvicinamento al mondo della musica?

Ho cominciato a suonare il pianoforte molto presto nonostante mio padre non volesse. Lui è stato un grande musicista classico, ha fatto parte per trent’anni dell’Orchestra di Santa Cecilia. C’era questo pianoforte in casa con la serratura chiusa, lui non voleva che i figli studiassero musica, diceva che era un lavoro difficile, pericoloso, che poteva dare grandi delusioni. Ho trovato il modo di aprire il pianoforte, ho cominciato in maniera non accademica, distratta, poi verso i 14 anni ho iniziato a scrivere canzoni e ho avuto la fortuna a 18 anni di essere introdotto al Folkstudio, un locale romano molto importante dove ai tempi si esibivano sia nuove proposte che artisti conclamati come De Gregori e Venditti. Un’amica mi portò lì, alla domenica c’era la possibilità per i nuovi artisti di presentare due brani e farsi conoscere, feci due brani miei e il patron del locale mi prese a ben volere, mi chiamò per suonare il lunedì dopo ad una serata in cui si esibiva De Gregori, poi mi chiamò per altre situazioni e da lì ebbi appuntamenti fissi in quel locale. Il passaggio al professionismo avvenne così, una mia fidanzata dell’epoca cantava in quel locale e divenne una corista di Michele Zarrillo. Durante il tour metteva una cassetta in cui c’erano alcune mie canzoni e Michele rimase colpito dai miei testi, mi chiese di fare qualcosa insieme a lui e la fortuna fu che quasi subito uscì “Cinque giorni”, da lì in poi mi chiamarono quasi tutti, Lucio Dalla, Renato Zero, la PFM. È iniziato tutto in maniera naturale e magica, è stato tutto un concatenarsi di eventi e si è aperto un percorso che mi ha allontanato dall’idea mia di fare il cantautore, mi arrivavano proposte una dopo l’altra e per vent’anni non ho potuto pensare ad altro, è stata una corsa incredibile, poi è arrivato anche il teatro e ho messo da parte la mia carriera solista anche perché ero molto gratificato come autore. Poi, pochi anni fa, Renato Zero ha ascoltato un mio brano, ha insistito e ha prodotto il mio primo album solista, è stato un po’ un percorso contrario a quelli soliti.

“Cinque giorni”, hai detto poco, una delle più belle canzoni italiane!

È stata una combinazione incredibile, una canzone molto sincera che è la cronaca di quello che mi è successo alla fine di una storia d’amore che ho avuto con una ragazza. Doveva essere una lettera poi mi sono ricordato che Michele stava girando con degli accordi sul piano il giorno prima, abbiamo provato a sovrapporre le mie parole e incredibilmente sono scivolate via come l’olio su quella musica e la canzone è uscita così, subito.

Sei legatissimo al cantautorato classico ma degli artisti di oggi, c’è qualcuno che ti ha particolarmente colpito?

Sono molto attento a quello che succede adesso, mi piacciono molto anche cose contemporanee, ti parlo di Diodato anche se ormai può far parte dei classici, però ci sono anche delle cose nuovissime nel panorama romano, ad esempio il duo Psicologi, con un approccio molto interessante ai testi, si sente qualcosa che risente della grande lezione dei cantautori. Mi piace molto come scrive Marracash, non sono chiuso al nuovo, anzi, mi piace la contaminazione e ascoltare cose che arrivano da fuori. L’unica cosa che noto è che c’è un appiattimento a livello letterario molto forte, a parte qualche eccezione non sento grandi temi, pochi si concentrano su situazioni importanti, parlo soprattutto del rap che nasce con ragioni nobili ma nel mainstream sta perdendo molto ed è un grande peccato.

Quanto influisce la città dove si vive sulla propria arte?

Per me incide tanto, io spesso mi fermo in luoghi precisi di Roma. Ho la fortuna di abitare in zona Vaticano e spesso vado a scrivere nel colonnato di San Pietro o arrivo a piedi a Piazza di Spagna, sono dei veri e propri set dove ti senti avvolto da qualcosa di magico che ti mette già in uno status ispirato, c’è già una cornice che accelera le tue emozioni e sensazioni, Roma di notte è un’esplosione, ho scritto canzoni fermando l’auto passando vicino Piazza Navona o sul ponte di Castel Sant’Angelo, sono situazioni irripetibili difficili da trovare ovunque, quando si fa una passeggiata a piedi a Roma c’è sempre qualcosa da scoprire, e questo secondo me aiuta tantissimo. Mi rendo conto che in ogni città ci sia qualcosa di coinvolgente, penso alla grande scuola genovese, a tutto quello che c’è a Bologna, le grandi scuole nascono nelle città in cui ci sono forti stimoli anche a livello architettonico, a livello di vicoli, di segreti che la città nasconde. Il secondo passaggio è che molte volte, gli artisti della stessa città, trovando una linea comune, uniscono le forze, infatti sono nate tante collaborazioni dai tempi di Venditti e De Gregori, più avanti nel tempo tra Daniele Silvestri, Max Gazzè e Niccolò Fabi, tutta la scena romana ha sempre trovato dei cenacoli, dei luoghi dove unirsi, dei punti di riferimento, la città ha sempre favorito l’incontro. Oggi abbiamo un problema, non ci sono più tanti locali dove fare la propria musica, se vuoi suonare in un posto devi fare le cover o portare il tuo pubblico, un tempo era davvero fantastico, nascevano direttamente collaborazioni tra artisti senza vincoli di case discografiche.

Hai qualche concerto estivo in programma?

Quest’anno sarà un anno un po’ interlocutorio dopo i tanti concerti dello scorso anno, sto lavorando ad un musical molto importante e non posso fare molto date. Debutterò l’8 luglio a Cortona, in una cornice molto bella, in quella rassegna c’è un calendario molto interessante. Poi andrò in Toscana, a Palermo e chiuderò questo breve tour a settembre a Roma, in totale saranno sei o sette date poi, una volta sistemate le questioni teatrali, credo di poter fare concerti in autunno. Sarò sempre con il pianoforte, a parte a Roma in cui dovrei essere accompagnato dal quartetto d’archi e dal mio produttore Jurij Ricotti che suonerà le chitarre.

Grazie mille per il tuo tempo, vuoi aggiungere qualcosa per chiudere l’intervista?

Grazie a te Marco, direi che ci siamo detti tutto, anzi, forse abbiamo anche parlato troppo (ride – ndr).

MARCO PRITONI