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VANBASTEN – “CANZONI CHE SAREBBERO DOVUTE USCIRE TOT ANNI FA”- IL DISCO …

VANBASTEN – “CANZONI CHE SAREBBERO DOVUTE USCIRE TOT ANNI FA”- IL DISCO …

Vanbasten 02 ph.Marika Di Tommaso
Intervista a Vanbasten, un artista promettente e profondo che ci presenta il suo ultimo lavoro “Canzoni che sarebbero dovute uscire tot anni fa”, uscito il 30 ottobre scorso. E’ il disco d’esordio di Vanbasten, cantautore romano, al secolo Carlo Alberto Moretti. Anche il Vanbasten che abbiamo intervistato ha giocato a calcio ed il calcio era molto presente nella sua vita ma in seguito ha rinunciato, non esercitando più attivamente. Nasce nello storico quartiere Montesacro a Roma nel 1986, a ventidue anni inizia a suonare – prima di quella età non voleva saperne, mi confessa – nell’intervista. I suoi inizi cominciano con un gruppo di tre ragazzi che non sapevano suonare ma avevano grinta e giovanile “presunzione”, condividendo rabbia e desiderio di esprimersi. Nella sua giovane talentuosa vita artistica scrive canzoni e tutto quel materiale, quel lavoro, quelle canzoni scritte descrivendo il mondo a lui vicino sono ora riunite in questo unico disco d’esordio. L’album contiene infatti alcuni brani che hanno dieci o più anni di vita. Lo abbiamo raggiunto al telefono per parlarci della sua narrazione, del filo conduttore delle sue canzoni e di un immaginario che parte dalla periferia fatto di vita vissuta, innamoramenti e amori, delusioni, sconfitte, ferite, povertà, lavoro, voglia di rivincita e di riscatto.

Il titolo mi incuriosisce molto: “Canzoni che sarebbero dovute uscire tot anni fa”, quando sarebbero dovute uscire queste canzoni?
Le ho scritte tutte in anni precedenti, per esempio “Mascara” l’ho scritta nel 2011, “Pallonate” nel 2014, nel 2017 ho scritto “16enne”; avevo scritto delle canzoni e nel frattempo suonavo ma non sentivo esigenze immediate di fare un disco; l’esigenza è arrivata successivamente e ho impiegato molto tempo a mettere insieme tutte le canzoni. Nella vita succedono tante cose, il tempo passa, le cose sono andate per le lunghe e non è stato un ritardo voluto. E’ stata davvero una casualità: si sono dilatati i tempi, a parte le esigenze creative.

Nel disco mescoli vari stili, new wave, poetica e cantautorato, c’è del punk a cui sei legato: quanti e quali riferimenti personali ci sono
Entrando nello specifico, ho avuto una formazione musicale particolare: durante l’infanzia ero legato allo stereo di mio padre e mia madre mentre durante il liceo non pensavo alla musica come al mio futuro professionale, non ci pensavo proprio, anzi vivevo la musica con grande distacco; addirittura chi entrava a scuola con la chitarra era per me, in quel momento, uno “sfigato”. Successivamente invece, intorno ai 20 anni ho iniziato a fare musica, ho iniziato a suonare relativamente “tardi” e da lì ho cominciato ad ascoltare moltissima new wave, soprattutto Ian Curtis del gruppo Joy Division. Sicuramente sono stati loro gli artisti di riferimento per me e poi, naturalmente, chiunque voglia fare questo lavoro va a scuola dai cantautori e ho appreso anche da loro. Non ho l’ambizione di dire di “aver preso da qualcuno”: cerco di fare quello che mi viene più naturale.

Parliamo del disco: dei 10 brani che compongono l’album, c’è un’idea comune che li unisce, un filo conduttore? Qual è il mondo che descrivi?
Il filo conduttore non è mai per me una questione di genere semmai di contenuti, preferisco essere coerente di contenuti che di sound o di genere per cui il contenuto è quello: nelle canzoni parlo di me, dietro ogni brano, ogni canzone c’è una persona che me l’ha ispirata: può essere stato un amico, magari un amico in un determinato momento o un luogo, una persona cara che soffre…Descrivo le emozioni della mia vita, soprattutto i momenti difficili e più duri. Nelle mie canzoni c’è sicuramente coerenza di contenuti. Vivo in borgata, riesco a descrivere quello che vedo; per esempio nel brano “Pallonate” descrivo quello che ho di fronte tutte le mattine quando scendo di casa.

E’ più creativa la tristezza o la felicità, la gioia?
Per quanto mi riguarda, la tristezza. Per me è così, poi magari per qualcun altro potrà essere maggiormente creativa la gioia. La gioia la scarico in un altro modo, divertendomi; invece la tristezza la scarico in modo solitario. Il dolore aumenta percezione, profondità.

Non ti piacciono le etichette. Come vorresti essere descritto?
Un cantautore, che è già un’ambizione altissima. Una cosa semplicissima, ambisco ad essere un cantautore ogni giorno.

Fabrizio De Andrè cantava e descriveva gli ultimi, gli emarginati:
De Andrè è un esempio, una straordinaria normalità perché lui raccontava gli ultimi da un punto di vista borghese e quindi al giorno d’oggi sarebbe una contraddizione, gli “ultimi” sono attualmente raccontati solo dai rapper e trapper, non certo da punti di vista borghesi: i cantautori oggi si sono imborghesiti, ed è proprio per questo che a me piace parlare del posto in cui vivo perché nel mio quartiere ci sono molti altri ragazzi che fanno musica; chi fa oggi il cantautore o chi fa indie non parla mai del posto in cui vive o se ne parla, ne parla in modo “pavido” a volte, mentre i trapper e i rapper ne parlano anche se ne raccontano le accezioni negative. Credo invece che non siano soltanto luoghi di accezioni negative ma che ci siano anche tanti aspetti positivi.

Raccontaci qualche singolo. Per esempio i brani “16enne”, “Mascara”, “Sparare sempre”: come sono nati questi brani?
Il brano “16enne” l’ho scritto per rabbia e non parlo dei miei sedici anni. Tornavo da un viaggio a Cuba e avevo conosciuto una ragazza italiana. Conoscerla e passare la vacanza con lei, semplicemente in amicizia, è stato un modo per tornare indietro nel tempo, alla spensieratezza di quando io stesso avevo sedici anni. E’ una canzone che parla di quello che “non c’è più”, un’età e un periodo passati; “Mascara” l’ho scritta sull’autobus tornando dal Piper perché in quel periodo organizzavo concerti: c’era questo giro di chitarra che aveva fatto il mio chitarrista e avevo questo mio amico che in quel momento si stava lasciando con la ragazza. Eravamo molto giovani, avevamo 20 anni, chiaramente era uno dei primi “traumi” di questo tipo a quell’età e quindi scrissi questa canzone per lui. “Sparare sempre” invece è una canzone che ho scritto per me – raramente scrivo canzoni per me – è il mio inno e l’ho scritta in un momento in cui mi stavo innamorando, dopo una nottata insonne alle 6 di mattina ho buttato giù tre accordi semplicissimi “Re maggiore-Mi maggiore-Do maggiore” ed è venuta fuori questa canzone.

Qual è la tua esigenza narrativa? Si percepisce un mondo dentro di te:
Raccontare storie ma vorrei raccontare storie di persone vicine a me, in modo tale che le possano sentire con la mia vicinanza e magari possano aiutare a cambiare qualcosa e a migliorare, stare meglio: mi basterebbe arrivare alle persone che ho vicino.

Definisci il “raccontare l’indigenza” senza vittimismi: potresti essere frainteso?
Non bisogna mai piangersi addosso quando ci si trova nelle situazioni più disagiate, è un concetto delicato e complicato e sintetizzarlo ora è difficile. Posso fare un esempio: nel posto dove vivo ci sono persone che non pensano alle stelle ma vivono bene lo stesso, dove la vita vera è la “normalità” e non è il successo o l’avere 15 minuti di “popolarità”. Le persone “normali”, semplici, meritano di avere tutta la considerazione che hanno le persone messe su un piedistallo.

Un artista nazionale e un artista internazionale di tuo riferimento, mi hai già accennato agli Joy Division:
Per quanto riguarda la musica italiana, oltre a De Andrè di cui abbiamo parlato prima, ti dico Rino Gaetano; come artisti internazionali senz’altro Ian Curtis del gruppo Joy Division e Bruce Springsteen su tutti. Amo grandi classici come anche John Lennon, artista forse “scomodo”.

Un’ultima domanda dedicata alla crisi dello spettacolo e della musica: si investe poco, a tuo parere, in cultura e creatività nel nostro Paese?
Secondo il mio parere, dato che sono un cantautore, un artista, secondo me c’è una prima linea di artisti che dovrebbe “fare” piuttosto che “parlare” perché ha una platea da intrattenere e non la deve intrattenere per forza con un concerto in uno stadio o in un palazzetto ma può farlo anche nel momento in cui quella stessa platea ne ha bisogno e non ha modo di poter acquistare un biglietto; per me che faccio parte di un altro tipo di scena, di un “sottobosco” in questo momento e a tutte le persone, gli artisti, della mia stessa scena artistica consiglierei di fare meno polemiche e di farsi trovare pronti, per dare migliori contenuti artistici una volta che tutto questo finirà, visto che non vedo in Italia in questo momento nuovi Mozart o Beethoven…
Non c’è bisogno di un trauma per diventare migliori.

Alessandra Paparelli