The Telescopes – Intervista alla band “un sogno visionario tra psichedelia e r …
by tuttorock
15 Giugno 2016
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Quando Stephen Lawrie, fondatore e frontman dei The Telescopes, sale sul palco, si toglie le scarpe con una calma trascendentale, ha i calzini grigi e la camicia stropicciata, si accovaccia per terra, gioca con l’arcobaleno della luce stroboscopica ed inizia a cantare. Più che un canto, Stephen, genera una trance che rapisce il pubblico e conduce verso un tunnel melodico, un oscuro vortice introspettivo dove inseguire un Bian Coniglio fino al Paese delle Meraviglie. L’esperienza live dei The Telescopes somiglia ad un repentino ed inquietante sogno di metamorfosi sonora. I bassi toni si fanno pesanti e persistenti, le chitarre stridono all’unisono, non c’è spazio per interruzioni, solo i gutturali gorgoglii della voce di una leggenda della musica ShoeGaze.
Ma questo avviene dopo il nostro incontro, nel basement dello Zigfrid Von Underbelly, storica venue di Hoxton, nel cuore pulsante di East London. Sono nel backstage con Stephen Lawrie, Dave Gryphon, attuale bassista dei The Telescopes, e Sara Ruini, booker e promoter della WallOfNoise Promotions company, organizzatrice dell’evento.
Un timore reverenziale sarebbe d’obbligo, considerando il calibro dell’artista in questione. Stephen infatti, membro storico della prima formazione dei Telescopes, fondata nel 1987, che ha visto negli anni un susseguirsi incalzante di artisti passare tra le sue fila, era sul palco prima ancora che io iniziassi a muovere i primi passi. Eppure, non c’è un briciolo di arroganza nel suo atteggiamento, sarà perché il genere in cui si è fatto un nome per quasi 30 anni, è decisamente poco mainstream, o sarà perché decenni di esperienza in una delle più toste industrie lavorative, hanno smussato il tipico ego da leadsinger. Ciò che ho davanti oggi, non è un musicista, ma un evoluzione artistica in carne ed ossa, capace di spaziare tra lo sperimentale, il noise-rock, dream e psychedelic pop, in una corsa sulle montagne russe che rivolta i sensi.
Ripercorrendo la carriera con i The Telescopes, dalll’album di debutto, ‘Taste’ 1989, sino al recente tour in Irlanda, il tuo sound è cambiato radicalmente, spaziando tra vari sub generi. Qual è stata l’evoluzione come musicista?
Stephen Lawrie: E’ parte della ragione di avere il nome The Telescopes, è qualcosa di espansivo piuttosto che ripetitivo. L’evoluzione è avvenuta in ogni modo possibile, in accordo con l’ispirazione. Per me, iniziando a fare un genere di musica noise, era una sorta di pre-caricamento, seguito da un secondo album più morbido, che al tempo, tutti dichiararono essere “un suicidio” di carriera. Ci ho creduto persino io, ed ho smesso di fare musica per anni. Poi, qualche anno dopo, ho iniziato a sentirmi dire da artisti che contavano “sono stato ispirato da quell’album” – ed ho realizzato che mi aveva dato molta libertà, perché per il terzo album potevo fare quel cazzo che mi pareva. Un album elettronico? Ci ho buttato dentro un po’ di Jazz. Qualche volta devi prendere un colpo per ottenere un po’ di libertà, e con colpo intendo un calcio nelle palle, e sono lieto di averlo fatto.
Perchè credi ci sia stata quella risposta al primo album? E perchè hai ascoltato le critiche?
SL: Non credo sia un caso di aver dato ascolto, più che altro, sono state le persone vicine alle case discografiche, Virgin megastores e Tower Records, a volte ci si aspetta una certa review per un artista e non arriva, non c’è stata una vera motivazione. C’è anche molta politica coinvolta, come nella stampa. Un tizio che lavorava per Melody Maker voleva ottenere il posto di editor da NME, allora NME era molto dentro alla musica grunge e non volevano avere a che fare con la musica shoegaze, quindi per lui avere quel posto significava andare attorno ai suoi amici, chiedere di recensire gli album e massacrarli con pessime recensioni, così da poter entrare nelle grazie di NME. Ed ha ottenuto il lavoro, è andata molto bene, è un giornalista di successo adesso… E’ un grande sostenitore di band come gli Oasis.
Dopo un breve istante di silenzio e sguardi di sottecchi, tutti scoppiano a ridere,
Stephen aggiunge: “Non so come faccia a conviverci. Io non ho niente a che fare con gli Oasis” – E forse è meglio così –
Pensi che l’industria sia cambiata adesso o sia rimasta sostanzialmente la stessa?
SL: Penso che l’industria sia uno scherzo. La immagino come tante persone che corrono con la testa girata sulla schiena, senza sapere cosa fare. Questo è il motivo per cui persone come Alan McGee hanno avuto successo, perchè arrivano con un’idea ben definita, hanno entusiasmo per qualcosa e tutti li seguono.
L’industria è una pecora che ha bisogno di essere guidata in sostanza.
Ad esempio, le etichette discografiche non hanno idea di che cavolo fare con internet adesso, o no? Aspettano che siano i gruppi a pubblicare qualcosa, ma.. Le bands non hanno bisogno di te se tu non hai bisogno di te stesso, quindi stanno rendendo l’industria ridondante. Penso che la musica sia molto più di questo e trascenda tutte quelle cazzate. Tutti dicono che (internet) sia la morte della musica… ma sai, non è così. Non lo è mai, potrebbe essere la morte dell’industria ma non sarà mai la morte della musica. Tutti la amano (la musica), i luoghi in cui può mandarti, tu puoi ascoltare una cosa e ti trasporta in un’altra, ed è fottutamente incredibile.
– Stephen mette un chiaro punto sulla digitalizzazione e la discussione trasla su un piano generazionale. La musica ha sempre parlato agli adolescenti di tutte le epoche, formando il gusto e le opinioni di giovani, artisti e fan. Gli stessi che nel 2016 si muovono ancora nel settore affiancati da millennials con una cultura spiazzante e un senso di ciò che la musica è diventata, deviata dai nuovi media. Così Sara, in un confronto tra passato e futuro, chiede quali potenzialità vede nell’era del digitale come salvagente e spinta propulsiva per agli artisti. Dave interviene: “E’ facile essere in una band, creare qualcosa e metterlo fuori, può andare online ed essere fruibile istantaneamente. Questo implica anche una sovrabbondanza, devi trovare buona musica tra migliaia di gruppi. Ma è una buona cosa” –
Che ricordi hai legati alla Creation Records e Alan McGee?
SL: Ho molti buoni ricordi, probabilmente di quando ci siamo incontrati e abbiamo iniziato a lavorare insieme all’inizio. Una volta ha dovuto lasciare lo show perché pensava fosse troppo rumoroso e troppo intenso e noi abbiamo pensato fosse la fine di quell’incontro ed invece abbiamo ricevuto una telefonata in cui diceva “Venite in ufficio, vogliamo mettervi sotto contratto, era eccessivo, ma era fantastico”. Tutto il resto è completamente illegale.
Come siete finiti a firmare con un’etichetta Tedesca? [N.d.R. Tapete Records]SL: Avremmo dovuto suonare ad Amburgo, ma lo show è stato cancellato, qualcosa a che fare con la venue, dove una volta suonavano i Beatles, ma non riesco a ricordare. Così abbiamo finito per passare il weekend in jam session a Parigi con degli amici, pensando che l’intero viaggio fosse stata una perdita di tempo. Ed è stato in quel momento che abbiamo ricevuto un messaggio dalla casa discografica, ho suonato per loro un po’ della musica a cui stavamo lavorando, siamo andati in studio, abbiamo registrato e finito l’album. Lavoreremo ancora insieme sui progetti a venire.
Sei sul palco da molti anni, come pensi che sia cambiata la scena musicale in UK?
SL: C’erano molti show, molte persone che giravano e scrivevano fanzines e l’informazione circolava attraverso le voci del settore.. forse una volta era un’esperienza più folle e violenta, quando abbiamo iniziato venivamo fuori dal punk e dal DIY, ora non più così tanto, in un certo senso le cose sembrano essere più rispettose.
Qual è stata la tua prima influenza musicale quando hai iniziato a suonare?
SL: probabilmente i Velvet Underground, e poi bands come i Suicide.
Dave suggerisce i Cramps, e puntualizza che c’è una differenza tra ciò che lo ispirava quando ha iniziato e ciò che lo ispira adesso. Stephen ribatte: “si, i Cramps ad esempio sono più un’ispirazione attuale, per la loro semplicità, il minimalismo..” –
Parlando di nuova musica, c’è qualche gruppo emergente in particolare che ti stimola o in cui credi?
SL: Si, ci sono molti buoni gruppi al momento, ad esempio i At Bona Fide, dalla Repubblica Ceca. E’ come avere Syd Barret con i Pink Floyd ma più punk, più estremo, più distorto.
Molti altri sono sulla giusta strada e saranno buoni, con il tempo, hanno solo bisogno di fare più live performance e registrare di più, per migliorare.
Vuoi condividere un segreto con noi?
SL: posso dirti un segreto se spegni il registratore.. Però ti mostro i miei occhiali (pieghevoli) da viaggio.. li porto intorno al collo, perché rompo sempre tutti quelli che metto in borsa.
Prima di lasciarvi andare on stage, ci date la vostra playlist?
SL: White Light dei Velvet Underground, Human Fly dei Cramps, Jack on fire dei The Gun Club e Dolores dall’ LP ‘Piasa…Devourer Of Men’ dei Sun City Girls, ma metterei anche i White Murder e Shirley Rolls.
DG: A little god in my hands degli Swans, Blindness e Antidotes, entrambe dei The Fall e Tom Petty.
Ma questo avviene dopo il nostro incontro, nel basement dello Zigfrid Von Underbelly, storica venue di Hoxton, nel cuore pulsante di East London. Sono nel backstage con Stephen Lawrie, Dave Gryphon, attuale bassista dei The Telescopes, e Sara Ruini, booker e promoter della WallOfNoise Promotions company, organizzatrice dell’evento.
Un timore reverenziale sarebbe d’obbligo, considerando il calibro dell’artista in questione. Stephen infatti, membro storico della prima formazione dei Telescopes, fondata nel 1987, che ha visto negli anni un susseguirsi incalzante di artisti passare tra le sue fila, era sul palco prima ancora che io iniziassi a muovere i primi passi. Eppure, non c’è un briciolo di arroganza nel suo atteggiamento, sarà perché il genere in cui si è fatto un nome per quasi 30 anni, è decisamente poco mainstream, o sarà perché decenni di esperienza in una delle più toste industrie lavorative, hanno smussato il tipico ego da leadsinger. Ciò che ho davanti oggi, non è un musicista, ma un evoluzione artistica in carne ed ossa, capace di spaziare tra lo sperimentale, il noise-rock, dream e psychedelic pop, in una corsa sulle montagne russe che rivolta i sensi.
Ripercorrendo la carriera con i The Telescopes, dalll’album di debutto, ‘Taste’ 1989, sino al recente tour in Irlanda, il tuo sound è cambiato radicalmente, spaziando tra vari sub generi. Qual è stata l’evoluzione come musicista?
Stephen Lawrie: E’ parte della ragione di avere il nome The Telescopes, è qualcosa di espansivo piuttosto che ripetitivo. L’evoluzione è avvenuta in ogni modo possibile, in accordo con l’ispirazione. Per me, iniziando a fare un genere di musica noise, era una sorta di pre-caricamento, seguito da un secondo album più morbido, che al tempo, tutti dichiararono essere “un suicidio” di carriera. Ci ho creduto persino io, ed ho smesso di fare musica per anni. Poi, qualche anno dopo, ho iniziato a sentirmi dire da artisti che contavano “sono stato ispirato da quell’album” – ed ho realizzato che mi aveva dato molta libertà, perché per il terzo album potevo fare quel cazzo che mi pareva. Un album elettronico? Ci ho buttato dentro un po’ di Jazz. Qualche volta devi prendere un colpo per ottenere un po’ di libertà, e con colpo intendo un calcio nelle palle, e sono lieto di averlo fatto.
Perchè credi ci sia stata quella risposta al primo album? E perchè hai ascoltato le critiche?
SL: Non credo sia un caso di aver dato ascolto, più che altro, sono state le persone vicine alle case discografiche, Virgin megastores e Tower Records, a volte ci si aspetta una certa review per un artista e non arriva, non c’è stata una vera motivazione. C’è anche molta politica coinvolta, come nella stampa. Un tizio che lavorava per Melody Maker voleva ottenere il posto di editor da NME, allora NME era molto dentro alla musica grunge e non volevano avere a che fare con la musica shoegaze, quindi per lui avere quel posto significava andare attorno ai suoi amici, chiedere di recensire gli album e massacrarli con pessime recensioni, così da poter entrare nelle grazie di NME. Ed ha ottenuto il lavoro, è andata molto bene, è un giornalista di successo adesso… E’ un grande sostenitore di band come gli Oasis.
Dopo un breve istante di silenzio e sguardi di sottecchi, tutti scoppiano a ridere,
Stephen aggiunge: “Non so come faccia a conviverci. Io non ho niente a che fare con gli Oasis” – E forse è meglio così –
Pensi che l’industria sia cambiata adesso o sia rimasta sostanzialmente la stessa?
SL: Penso che l’industria sia uno scherzo. La immagino come tante persone che corrono con la testa girata sulla schiena, senza sapere cosa fare. Questo è il motivo per cui persone come Alan McGee hanno avuto successo, perchè arrivano con un’idea ben definita, hanno entusiasmo per qualcosa e tutti li seguono.
L’industria è una pecora che ha bisogno di essere guidata in sostanza.
Ad esempio, le etichette discografiche non hanno idea di che cavolo fare con internet adesso, o no? Aspettano che siano i gruppi a pubblicare qualcosa, ma.. Le bands non hanno bisogno di te se tu non hai bisogno di te stesso, quindi stanno rendendo l’industria ridondante. Penso che la musica sia molto più di questo e trascenda tutte quelle cazzate. Tutti dicono che (internet) sia la morte della musica… ma sai, non è così. Non lo è mai, potrebbe essere la morte dell’industria ma non sarà mai la morte della musica. Tutti la amano (la musica), i luoghi in cui può mandarti, tu puoi ascoltare una cosa e ti trasporta in un’altra, ed è fottutamente incredibile.
– Stephen mette un chiaro punto sulla digitalizzazione e la discussione trasla su un piano generazionale. La musica ha sempre parlato agli adolescenti di tutte le epoche, formando il gusto e le opinioni di giovani, artisti e fan. Gli stessi che nel 2016 si muovono ancora nel settore affiancati da millennials con una cultura spiazzante e un senso di ciò che la musica è diventata, deviata dai nuovi media. Così Sara, in un confronto tra passato e futuro, chiede quali potenzialità vede nell’era del digitale come salvagente e spinta propulsiva per agli artisti. Dave interviene: “E’ facile essere in una band, creare qualcosa e metterlo fuori, può andare online ed essere fruibile istantaneamente. Questo implica anche una sovrabbondanza, devi trovare buona musica tra migliaia di gruppi. Ma è una buona cosa” –
Che ricordi hai legati alla Creation Records e Alan McGee?
SL: Ho molti buoni ricordi, probabilmente di quando ci siamo incontrati e abbiamo iniziato a lavorare insieme all’inizio. Una volta ha dovuto lasciare lo show perché pensava fosse troppo rumoroso e troppo intenso e noi abbiamo pensato fosse la fine di quell’incontro ed invece abbiamo ricevuto una telefonata in cui diceva “Venite in ufficio, vogliamo mettervi sotto contratto, era eccessivo, ma era fantastico”. Tutto il resto è completamente illegale.
Come siete finiti a firmare con un’etichetta Tedesca? [N.d.R. Tapete Records]SL: Avremmo dovuto suonare ad Amburgo, ma lo show è stato cancellato, qualcosa a che fare con la venue, dove una volta suonavano i Beatles, ma non riesco a ricordare. Così abbiamo finito per passare il weekend in jam session a Parigi con degli amici, pensando che l’intero viaggio fosse stata una perdita di tempo. Ed è stato in quel momento che abbiamo ricevuto un messaggio dalla casa discografica, ho suonato per loro un po’ della musica a cui stavamo lavorando, siamo andati in studio, abbiamo registrato e finito l’album. Lavoreremo ancora insieme sui progetti a venire.
Sei sul palco da molti anni, come pensi che sia cambiata la scena musicale in UK?
SL: C’erano molti show, molte persone che giravano e scrivevano fanzines e l’informazione circolava attraverso le voci del settore.. forse una volta era un’esperienza più folle e violenta, quando abbiamo iniziato venivamo fuori dal punk e dal DIY, ora non più così tanto, in un certo senso le cose sembrano essere più rispettose.
Qual è stata la tua prima influenza musicale quando hai iniziato a suonare?
SL: probabilmente i Velvet Underground, e poi bands come i Suicide.
Dave suggerisce i Cramps, e puntualizza che c’è una differenza tra ciò che lo ispirava quando ha iniziato e ciò che lo ispira adesso. Stephen ribatte: “si, i Cramps ad esempio sono più un’ispirazione attuale, per la loro semplicità, il minimalismo..” –
Parlando di nuova musica, c’è qualche gruppo emergente in particolare che ti stimola o in cui credi?
SL: Si, ci sono molti buoni gruppi al momento, ad esempio i At Bona Fide, dalla Repubblica Ceca. E’ come avere Syd Barret con i Pink Floyd ma più punk, più estremo, più distorto.
Molti altri sono sulla giusta strada e saranno buoni, con il tempo, hanno solo bisogno di fare più live performance e registrare di più, per migliorare.
Vuoi condividere un segreto con noi?
SL: posso dirti un segreto se spegni il registratore.. Però ti mostro i miei occhiali (pieghevoli) da viaggio.. li porto intorno al collo, perché rompo sempre tutti quelli che metto in borsa.
Prima di lasciarvi andare on stage, ci date la vostra playlist?
SL: White Light dei Velvet Underground, Human Fly dei Cramps, Jack on fire dei The Gun Club e Dolores dall’ LP ‘Piasa…Devourer Of Men’ dei Sun City Girls, ma metterei anche i White Murder e Shirley Rolls.
DG: A little god in my hands degli Swans, Blindness e Antidotes, entrambe dei The Fall e Tom Petty.
Stephen Lawrie mi lascia con l’impressione di essere un uomo che ama i dettagli, quando finiamo l’intervista mi annusa i capelli, dice che profumo di buono, e si avvia verso il palco con una bottiglia di Kilkenny tra le mani..
BEATRICE BELLETTI
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