SWANZ THE LONELY CAT – Intervista al cantautore e polistrumentista
In occasione dell’uscita di “Swanz The Lonely Cat’s Macbeth”, nuovo disco del suo progetto solista Swanz The Lonely Cat, ho avuto il piacere di intervistare Swanz, autore, compositore e frontman dei Dead Cat in a Bag, una band in perenne equilibrio fra folk noir, musica balcanica, tex- mex e post-rock, con i quali ha registrato quattro album con un’eccellente risposta da parte della critica, concerti in Italia ed all’estero, palchi condivisi con Hugo Race e Bonnie Prince Billy, Dad Horse Experience e Matt Elliot.
Ciao Luca e benvenuto su Tuttorock, parliamo subito di questo tuo nuovo lavoro solista, “Swanz The Lonely Cat’s Macbeth”, un vero e proprio omaggio alla tragedia di William Shakespeare, un’idea nata quando e come?
Il lavoro è nato su commissione, per uno spettacolo teatrale (ho lavorato spesso in teatro come compositore, musicista e anche come attore). Poi ho rimaneggiato, ritoccato, ampliato, personalizzato il tutto. Ma, mentre proseguivo, prendeva forma l’idea di un disco. In due atti. Anche se il povero e feroce Macbeth muore alla fine della prima traccia… Ho voluto esplorare generi già latenti nei dischi dei miei Dead Cat in a Bag – come il noise, l’harsh-noise, la musica concreta – e insieme avventurarmi in ambiti in cui non mi sentivo a mio agio, se non come ascoltatore. Ogni volta che aggiungevo un suono, cambiavo la partitura. Avrei potuto non smettere mai. Poi la EEEE e la Toten Schwan mi hanno posto, proposto e imposto una data. A quel punto ho mixato tutto.
Musica, teatro, letteratura, un tempo si amalgamavano alla perfezione, potrà prima o poi trasformarsi in chiave positiva il detto “la storia è destinata a ripetersi”?
Secondo me si amalgamano ancora, anche se magari in modi che non ci risultano evidenti o graditi. C’è molta promiscuità tra cultura e costume, ma c’è sempre stata. Esistono tanti ambiti diversi e, per ora, una certa nicchia mi pare l’ambito più ospitale. Ho suonato in alcune gallerie d’arte: nessuno si è stupito più di tanto. Poi mi piace anche suonare nei festival coi miei Dead Cat in a Bag. Non sono cose che si escludono.
Dovrebbero prendersi tutti un po’ di tempo per dedicarsi all’ascolto di questa intensa opera minimalista, come riuscire a convincere però le tante menti distratte dalla frenesia e dalla superficialità che le circonda?
Più che ascoltare me, credo che tutti dovrebbero ascoltare Scott Walker. Poi, magari non si può chiedere alla gente di mettere Ligeti sull’autoradio. Però un po’ meno di canzoni velocizzate per TikTok, forse sì. La critica dovrebbe fare una parte del lavoro. E anche un uso più culturale dei social potrebbe magari dare qualche frutto. Non voglio essere disfattista o nostalgico, ma mi pare che – se è vero che il medium è il messaggio, come sosteneva McLuhan – le speranze non siano tante. Abbiamo miliardi di informazioni disponibili in ogni minuto della giornata, ma ciò che il mainstream impone è egemonico. Fortunatamente, non c’è solo il mainstream. Altrimenti non avrei fatto questo disco, né tutti gli altri prima.
L’album è stato preceduto da “All is but Toys”, un suggestivo cortometraggio ispirato dalle parole che Macbeth afferma dopo aver ucciso il Re. Oltre alla musica hai curato anche la regia?
Il collettivo Plastikwombat è la mia casa, per ciò che riguarda le immagini. È composto da Silvia Vaulà e Paolo Grinza, due ex ricercatori fisici che hanno aperto uno studio fotografico, inizialmente dedicato alla food photography, quindi esteso ad altri ambiti, sempre con un’attenzione particolare alla fotografia, all’illuminazione, alla qualità dell’immagine. Io ci collaboro con varie mansioni, non solo legate alla musica, e quando c’è qualcosa da fare – come in questo caso, il video – ci piace metterci alla prova. Abbiamo girato tutto in studio, in un paio di giorni. E devo dire che All Is But Toys è andato bene in questo festival che si chiama Shakespeare Shorts, a cui partecipano anche produzioni ben più ambiziose. Per me, il video è il giusto correlato del disco.
Un lavoro che si presta ad essere presentato dal vivo in una doppia veste, musicale e visiva, puoi anticipare qualcosa rispetto ai prossimi spettacoli?
Ho avuto un incidente che mi ha tenuto per un po’ lontano dal palco, perciò al momento non ho pronto nulla. Sì, il suono del disco si presta, ma va considerato che sul disco ho suonato io stesso una dozzina di strumenti e dal vivo non potrei fare lo stesso. Sull’aspetto visivo sono d’accordo, ma ho sempre tentato di dividere la performance dagli altri apparati. Forse sono vecchio e vanesio, ma mi piace che la mia postura e il mio sudore siano il tramite tra la mia musica e il pubblico. Se c’è una proiezione, mi faccio da parte io stesso.
Stai scrivendo nuovi brani per i tuoi Dead Cat in a Bag?
No. Per noi We’ve Been Through è ancora in qualche modo giovane. Ci ha portati a un livello di coralità mai esperito prima. Ora si tratta di ripartire da lì. In compenso, ho finito un disco solista di canzoni, dal folk noir al country, con parti drone (ovviamente, ah ah ah!), che ospita anche una delle ultime registrazioni di Alain Croubalian dei Dead Brothers – che era un fratello davvero e che ora è morto sul serio.
Hai anche altri progetti in cantiere?
Ho sempre progetti, per fortuna. Attendo di sentire che è stato di un brano che ho realizzato con Miro Sassolini e Gianni Maroccolo (un artista con cui mi sono trovato a lavorare più volte, imparando sempre molto). Ho co-prodotto, insieme a Davide Tosches, un disco di Matteo Bosco. Ho suonato sul disco These Gloves di Tommaso Varisco. Devo chiudere le registrazioni di un disco di Swanz the Lonely Cat e Stella Burns, a quattro mani e due voci. Sto lavorando a uno spettacolo sul periodo berlinese di Bowie e vorrei riprendere il mio spettacolo di teatro-canzone sulla solitudine e le camere d’albergo, iniziato ancor prima della pandemia. E poi credo che farò un disco di circuit bending, in onore di un amico che non c’è più, insieme ad altri noisers. E ho in ballo un progetto ambizioso e internazionale con Love & Thunder, un collettivo che sta nascendo e a cui tengo molto.
Grazie mille per il tuo tempo, vuoi aggiungere qualcosa per chiudere questa intervista?
Che potrei aggiungere? Grazie per il tuo tempo e la tua attenzione. Un giorno, forse, scriverò il requiem definitivo e riparleremo.
MARCO PRITONI
Sono nato ad Imola nel 1979, la musica ha iniziato a far parte della mia vita da subito, grazie ai miei genitori che ascoltavano veramente di tutto. Appassionato anche di sport (da spettatore, non da praticante), suono il piano, il basso e la chitarra, scrivo report e recensioni e faccio interviste ad artisti italiani ed internazionali per Tuttorock per cui ho iniziato a collaborare grazie ad un incontro fortuito con Maurizio Donini durante un concerto.