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Intervista ai The Smoke Orchestra sul loro viaggio intergalattico: Celestial Bodies

Intervista ai The Smoke Orchestra sul loro viaggio intergalattico: Celestial Bodies

In occasione della pubblicazione del primo album di inediti “Celestial Bodies”, abbiamo intervistato i The Smoke Orchestra

Buongiorno e benvenuti tra le pagine virtuali di Tuttorock!
I “The Smoke Orchestra” nascono semplicemente come “Smoke”, una reggae roots band dal gusto vagamente psicoattivo.
Il percorso del gruppo è caratterizzato da continue mutazioni che vi portano a divenire un sistema nebuloso in cui è difficile vedere attraverso. Siete un’orchestra di fumo e un po’ come per i vapori emesso dal Brucaliffo di Alice nel Paese delle Meraviglie, vi disperdete nell’aria dipingendo ghirighori di note, impossibili da trattenere tra le dita.
Sicuramente vi siete allontanati molto dal punto di partenza, toccando galassie sconosciute, corpi celesti o come li definireste voi, “Celestial Bodies”, dal titolo del vostro primo album di inediti. Come vi sentite oggi ripercorrendo la vostra evoluzione musicale?
Innanzitutto ciao a tutti e grazie per l’interesse e le belle parole, che il Brucaliffo sia sempre con noi… e con il tuo spirito. Amen!
Ci sentiamo freschissimi, il lavoro di musicista prevede in sé il fatto di ricominciare spesso tutto da capo, quindi a furia di farlo ci siamo abituati, ma questa volta è veramente una goduria perché siamo finalmente “tornati” a fare musica originale.
Non rinneghiamo niente del nostro passato, nemmeno il periodo che ci ha visti “prostituti” musicali, in veste di backing band di altri artisti, esperienza che ci ha comunque formato e permesso di compiere la nostra evoluzione, abbracciando un mondo musicale con meno vincoli creativi e con un pubblico potenzialmente più ampio di quello del reggae dal quale proveniamo.
Tra parentesi, comunque una traccia reggae/dub dal titolo “Antigravity Fluctuation” è presente nell’ album e la dedichiamo al nostro mitico batterista e fondatore Ale “Licky-Licky Number One” Soresini, prematuramente scomparso nel 2017.

Nel 2009 avete iniziato a suonare come backing band per artisti soul e R&B italiani e internazionali, come Nina Zilli e Ronnie Jones.
Ci sono stati momenti particolarmente significativi che hanno segnato il rapporto con questi personaggi?
Quando si sta molto tempo insieme e si condividono molte esperienze, come è successo per esempio con la prima tournée “ruspante” di Nina Zilli degli esordi nel 2010, nella quale abbiamo fatto circa 120 concerti nell’ arco di un anno, è inevitabile che si formino dei legami quasi famigliari con tutti i compagni di viaggio.

Immagino che l’esperienza acquisita suonando per artisti diversi avrà inevitabilmente influenzato il modo in cui vi approcciate alla composizione.
C’è qualche aspetto della vostra esperienza da ‘backing band’ che portate ancora nei progetti originali?

Più che altro durante alcune di queste esperienze abbiamo capito quello che NON avremmo mai voluto fare… mi riferisco ad alcune scelte stilistiche fatte per andare incontro al gusto del momento, assecondando pretestuose esigenze manageriali, piuttosto che l’uso indiscriminato di sequenze pre-registrate dal vivo, completamente in antitesi con la vera musica alla quale ci ispiriamo.
E’ vero invece, che ci ha influenzato nel modo di proporci dal vivo cercando sempre di creare un vero e proprio show studiato nei minimi dettagli… cosa che è ancora in fase di lavorazione per questo ultimo progetto.

Grazie ad “Hot Funk and Sweaty”, avete abbracciato un suono funky che vi ha permesso di entrare a gamba tesa su un genere ancora relativamente inesplorato in Italia. Cosa ne pensate del ruolo del funk nella scena musicale del nostro Paese?
Non credo che esista in questo momento un ‘ruolo del funk’ sulla scena, se non del funk “napoletano” tipo Nugenea, che però si ispira più a sonorità anni ’80, e non ’70 (e prima) come l’ old school al quale ci è venuto naturale ispirarci in “Hot Funk & Sweaty” e anche per “Celestial Bodies”

È stato difficile rendersi credibili e/o riconoscibili in questa veste?
Purtroppo in Italia gli spazi per eventi non “globali” sono sempre meno, e noi, che non siamo mai stati degli affaristi ma degli appassionati, siamo riusciti e stiamo riuscendo, grazie alla qualità che cerchiamo sempre ostinatamente di mettere nelle cose che facciamo, ad avere qualche piccolo (ma grande per noi) riscontro e stiamo cominciando ad avvertire fiducia e positività intorno a noi.

La scelta di proporre delle cover datate tra il ’65 e il ’75 è decisamente sfidante. Come vi siete assicurati di mantenere l’autenticità dei brani pur portando un’impronta personale a dei temi iconici?
“Hot Funk & Sweaty” è stato registrato per la maggior parte suonando tutti insieme dei brani che eseguivamo dal vivo da parecchio e avevano di conseguenza acquisito dei naturali adattamenti rispetto agli originali, dovuti semplicemente al nostro modo di suonare o di interpretarne il portamento.

Il vostro pezzo preferito di quell’epoca?
Rispondere è molto difficile, perché quasi tutta la musica che amo è stata prodotta in quel periodo… ne dirò uno di culto (e un po’ strampalato) che mi affascina da sempre: “Revolution Will Not Be Televised” Gil Scott-Heron, 1971.

C’è una sorta di “filosofia comune” che guida la band quando si tratta di scegliere nuovi progetti? Ad esempio vi confrontate spesso tra voi riguardo i cambiamenti stilistici?
Lungo la storia degli Smoke e poi della Smoke Orchestra ci sono stati vari avvicendamenti di “leader” e frontman e di conseguenza varie filosofie.
Attualmente ci guida esclusivamente la passione.
Per quanto riguarda il confrontarsi, abbiamo effettivamente avuto lunghe conversazioni iniziali, ma da un certo momento in poi, quando le idee erano chiare, si è passati all’ azione, cercando di concretizzare il più possibile.

Litigate spesso tra di voi? Quali sono i membri della band che vanno meno d’accordo?
Come dice un vecchio adagio siciliano: “se non si litiga almeno una volta non si diventa veri amici”… infatti tra di noi è capitato qualche alterco e qualche giocosa scazzottata in gioventù, mai legata ad argomenti musicali e conclusa sempre in allegria (fortunatamente).
Ora siamo grandi, abbiamo raggiunto la pace dei sensi e cerchiamo di volerci solo bene.

Il vostro recente “Celestial Bodies” è un tipo di progetto che implica una narrazione complessa, in grado di far riflettere su infinito e mistero attraverso il macro tema dello spazio. Ci sono diverse storie brevi, che messe in musica, agiscono come delle sorte di “mythos” (μῦϑος) il mito greco o meglio “racconto / discorso”.
Rendete omaggio a figure storiche come quella dell’astronoma statunitense Henrietta Swan Leavitt, che ha contribuito alla comprensione delle distanze cosmiche, ma trovate anche il modo di sdrammatizzare, intervallando momenti più scherzosi: “Pluto, The Dwarf Planet”, ad esempio, è una simpatica parodia al pianeta surclassato. Mi raccontate come avete lavorato alla costruzione di questo concept?
L’idea iniziale prevedeva un disco di brani strumentali ispirati al suono della fantascienza cinematografica anni ’70, con temi galattici, suoni spaziali ecc…
E infatti la maggior parte delle tracce erano già “funzionanti” con la sola parte musicale, (ne abbiamo anche “avanzate” un paio che pubblicheremo a breve).
Un giorno, per gioco, provai a cantare una strofa, proprio su “Pluto The Dwarf Planet”, utilizzando le parole del titolo più poche altre, e subito ci siamo accorti della maggior fruibilità e potenzialità che aggiungeva la voce, e soprattutto, che utilizzando il testo si poteva rimanere in ambito spaziale a prescindere dal suono. Per scrivere i testi ho lavorato di volta in volta in modo diverso: in alcuni casi in maniera scientifica, documentandomi da fonti astronomiche sull’ argomento in questione e mettendo in “versi” alcuni dati scientifici, in altri, astratta, lasciandomi andare in licenze poetiche, e in alcuni casi, utilizzando l’ironia che è l’arma migliore di tutte.

Henrietta Leavitt è una donna che si trova immersa in un mondo, quello della scienza, spesso reso proprio degli uomini, come se le donne in alcuni ambiti non potessero avere voce in capitolo.
Nel 1966 James Brown cantava saggiamente: “this is a man’s world / but it wouldn’t be nothing, nothing without a woman or a girl”.
Penso che scegliere di rappresentare un personaggio femminile, in cui anche le giovani ragazze possano identificarsi, senza che questo raffiguri l’ideale romantico dell’ amante o della moglie, sia un’ottima mossa. Me la spiegate?
Innanzitutto abbiamo provato a guardare dalla sua prospettiva, immaginandoci la sensazione di aver finalmente trovato quello che si cercava da sempre… proprio lì, davanti a te!
In secondo luogo, abbiamo scelto di raccontare una Donna, che nonostante la sua importanza non appare nella lista dei grandi nomi, composta quasi sempre da uomini.
Oggi come allora le donne fanno più fatica ad emergere rispetto ai colleghi maschi, e ironicamente, nel finale del testo, abbiamo ipotizzato che solo quando potremo raggiungere fisicamente la piccola nube di Magellano (al centro degli studi della Leavitt), saremo anche abbastanza evoluti per vivere veramente in pace ed unità.

La ritmica di “Hot Mercurio” sembra giocare un ruolo centrale nel dare energia all’album. Come avete sviluppato i groove e le strutture ritmiche per rispecchiare l’essenza di questo pianeta?
“Hot Mercurio” nasce  anch’essa solo strumentale, incrociando un piano ostinato in ottavi (alla Lucio Dalla) con una linea di basso che non suona le toniche, cioè le note che si suonano di solito sugli accordi, creando un effetto “Earth Wind & Fire” che ci è piaciuto subito tanto. Solo in seguito abbiamo pensato che questo suono si adattasse benissimo al pianeta che ruota più vicino al sole, e nel testo non abbiamo fatto altro che raccontarlo, a modo nostro.

“Antigravity Fluctuation” invece, gioca sulla componente reggae per creare un forte senso di instabilità, quasi a farci percepire un “galleggiamento” nello spazio vuoto.
Quali tecniche avete impiegato per creare il senso di levitazione?

Non utilizziamo mai nessuna tecnica vera e propria, ma seguendo i nostri istinti primordiali siamo sempre alla ricerca della magia nascosta tra le note…e come nei viaggi spaziali non sappiamo mai precisamente dove si va a finire.
Probabilmente Giuseppe Salvadori, il nostro bravissimo sound engineer delle Officine Meccaniche di Milano, potrebbe rivelarti qualche trucco che ha usato in fase di mix…
Analizzando a posteriori posso dire però che essendo un pezzo reggae-dub (ponte che ci collega direttamente alle nostre origini), contiene intrinsecamente ipnotismo ritmico.
L’ armonia e la melodia eterea, che abitualmente non appartiene a questo genere, danno senso di spazialità. Il testo e la struttura sono astratti, così come il concetto stesso di antigravità, che per ora è solo teorico.

Quale è la traccia più goduriosa di “Celestial Bodies” da suonare live?
La goduriosità live è un elemento chiave che ci siamo prefissati da subito e tenuta sempre in considerazione nello scrivere e arrangiare tutti brani, che essendo di una complessità notevole e particolarmente ricchi di sfumature, necessitano di molto lavoro per poterne automatizzare alcuni passaggi.
Personalmente ho goduto parecchio nel suonare Supernova Event, Lenticular Galaxy e Hot Mercurio …quando tutto “gira”… è una figata!

In un’epoca in cui le band e gli artisti tendono a concentrarsi su singole tracce ed Extended Play, cosa vi ha spinto a continuare a lavorare su un album completo? Qual è il valore di pubblicare un prodotto di questo tipo per voi, in particolare nei tempi moderni?
Sono in completa disarmonia con le tendenze attuali, non solo musicali, ma è inutile lamentarsi e basta. Nel mio piccolo ho pensato che cercare di fare qualcosa di bello, indirizzando tutti gli sforzi verso questo unico progetto, a suo modo, un’ impresa (come Henrietta), sia il mio unico modo per dare un segnale che, se ascoltato, potrebbe risvegliare da questa “Era del Niente” che stiamo vivendo.

Avete già delle date confermate per il prossimo anno?
Ci stiamo affacciando ora al live, suoneremo all’ auditorium ‘Demetrio Stratos’, in diretta sulle frequenze di Radio Popolare a metà febbraio e siamo in attesa di conferme da alcuni Festival Italiani per la primavera/estate.

Vi ringrazio per il vostro tempo e mi auguro di sentirvi presto! Buona fortuna per la promozione del vostro “Celestial bodies”.
Grazie a voi! Siamo qui apposta!

SUSANNA ZANDONÀ

Band:
Angelo “Gange” Cattoni – tastiere, voce
GianLuca “Pello” Pelosi – basso
Marco Zaghi – sassofoni e flauto
Antonio “Heggy” Vezzano – chitarra
Riccardo “Jeeba” Gibertini – tromba e trombone
Nico “Rho Kayman” Roccamo – batteria e percussioni

In aggiunta nella formazione live:

Giovanni “Jack” Chierici – Batteria Percussioni cori
Fabio “Faboulous” Forni – chitarra e cori
Al disco hanno partecipato anche:
Sergio “Sir Jo” Cocchi – voce
David “Flow” Florio – Voce flauto chitarra

Nick Taccori – batteria
Cesare Nolli – chitarra
Maurizio Schiavo – violino
Ivan Merlini – violoncello
William Nicastro – Contrabbasso

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