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Intervista a Giuseppe Rinaldi (Kaballà) – Petra Lavica 2024 remastered

Intervista a Giuseppe Rinaldi (Kaballà) – Petra Lavica 2024 remastered

Tra dialetto siciliano e musica pop: in occasione dei trentatrè anni di Petra Lavica, album finalista del premio Tenco, abbiamo intervistato Giuseppe Rinaldi (in arte Kaballà) per parlare di rock e di sfide, ma anche del suo legame profondo con le tradizioni.

Buongiorno Giuseppe e benvenuto tra le pagine virtuali di Tuttorock. Potremmo considerare “Petra Lavica” come il tuo figlio primogenito. Come ritieni che suoni questa testa calda, a trentatré anni di distanza dalla pubblicazione ufficiale?
Si tratta senz’altro del mio primogenito, ma vorrei precisare che ha avuto più genitori che lo hanno immaginato e voluto. È’ un figlio di tre padri: me, Gianni De Berardinis e Massimo Bubola. L’ho poi allevato e fatto crescere portandomelo in giro sempre con vestiti diversi. Una testa calda e ribelle come i suoni che ci sono dentro e come la lingua che parla.

In che modo avete “rinfrescato” la nuova versione remastered a 33 giri?
Penso sia stato rimasterizzato magistralmente da Tommy Bianchi, figlio del mitico ingegnere del suono Foffo che lo ha supervisionato in questo delicato lavoro. Le registrazioni rigorosamente analogiche dell’epoca sono state rispettate usando riverberi che non le snaturassero, il remastering ha reso i suoni più brillanti ma cercando di mantenere il calore originale ed evidenziando le timbriche di alcuni strumenti che hanno ritrovato luce come il restauro rispettoso dei colori originali di un antico e prezioso quadro.

Quattro dei brani provenienti dall’album: “Petra lavica”, “Quantu ci voli”, “Fin’a dumani” e “Sutta lu mari”, sono stati scelti per la colonna sonora del film “Paradiso In Vendita” con Bruno Todeschini, Donatella Finocchiaro e Domenico Centamore. Puoi raccontarmi come è nata la collaborazione con il regista Luca Barbareschi?
Conosco Barbareschi da trent’anni, ci presentò il regista del mio video “PETRA LAVICA”, Daniele Pignatelli.
Luca si innamorò di quel brano e volle affidarmi la colonna sonora del film italo/russo “La Delegazione” di cui lui era produttore e attore protagonista.
Il film girato fra Mosca e Venezia dal famoso regista russo Alexandr Galin ebbe poco esito in Italia, ma mi dicono che invece è diventato un film culto in Russia per via della famosissima attrice sovietica Inna Cùrikova che ne era la protagonista femminile.
Ci siamo ritrovati a distanza di tanto tempo e galeotta è stata ancora “Petra Lavica” che Luca ha voluto nel film “Paradiso in vendita”, assieme ad altre canzoni dell’album. Così mi ha voluto affidare anche la colonna sonora di questa divertente e intelligente commedia girata fra l’isola di Filicudi e Parigi. L’intensa “sicilianità” dell’ambientazione ha fatto pensare a Barbareschi che il musicista giusto per questo film ero io, ma questa volta ho composto le musiche avvalendomi della preziosa collaborazione dell’amico e straordinario musicista Antonio Vasta, con cui condivido il palco da più di dieci anni e che è stato fondamentale nella composizione dei temi e nella scrittura degli arrangiamenti.

L’album è frutto della sperimentazione tra differenti sonorità, sapientemente miscelate al dialetto siciliano. Relativamente a questa scelta non c’è mai stato il timore dell’instaurarsi di una barriera linguistica, forse nei confronti degli ascoltatori “non dialettofoni”?
Quel lavoro fu frutto di una serie di stimoli che ci arrivavano dalla musica che amavamo e che da un po’ girava intorno.
La stella polare che ci guidava in Italia era stata sicuramente avanti del “Creùza de mà” di Fabrizio De Andrè, un lavoro che aveva indubbiamente stravolto gli stilemi della musica d’autore cantando in dialetto genovese su musiche che andavano oltre al pur importante e storico fenomeno della musica folk introducendo sonorità maghrebine, mediorientali e mediterranee.
Ma noi guardavamo anche a quel che succedeva all’estero con il folk anglo/irlandese contaminato dal rock delle chitarre elettriche dal drumming delle batterie e dai bassi pulsanti o al particolare suono di certe band americane che si ascoltavano allora.
A completare tutto l’uso del dialetto siciliano mischiato all’italiano che era la lingua parlata da noi giovani siciliani di allora.
Certo, fu un azzardo che sicuramente aprì le porte alla musica world in Italia ma forse era un po’ troppo presto per vincere le diffidenze degli ascoltatori “non dialettofoni” che forse avevano ancora troppe remore verso il loro stesso dialetto usato su musiche “diverse”.
Certo, da allora tanti esperimenti e tanti passi avanti sono stati fatti ma, a mio parere, l’uso del dialetto ha un campo molto aperto dove c’è ancora molto spazio per sperimentare.

L’Italia è una delle nazioni con la più variegata quantità di lingue differenti al suo interno, frutto della storia travagliata del Paese, che dopo l’unificazione risultava ancora frammentato a livello linguistico.
Si stima che nel 1861 la maggior parte della popolazione italiana si esprimesse ancora in dialetto e che al massimo due milioni e mezzo di persone, ovvero il 10% della popolazione, parlasse la c.d lingua italiana, un idioma definito “morto” dal Manzoni.
In questo periodo più del 75% della popolazione non sapeva nè leggere nè scrivere. Fu solo nel cinquantennio successivo che lo Stato, grazie ai risultati nel campo dell’istruzione pubblica, riuscì a dimezzare del 40% la percentuale nazionale di analfabeti.
Tuttavia il processo di “italianizzazione” si potè considerare concluso solo negli anni cinquanta del novecento, con l’irruzione nelle case degli italiani dei primi media, ovvero radio e televisione… se uno dei più grandi problemi dal Paese è stato fin all’epoca dei nostri nonni (o padri) quello di alfabetizzare la popolazione, uniformando la lingua e dimenticando quindi quel gergo “volgare” che era il dialetto, perchè oggi temiamo di averlo dimenticato?
Le lingue minori che al loro interno hanno altre “sottolingue” dette vernacoli, sono ricche di sfaccettature, colori, suoni, cultura alta e bassa che si mischia e sono state gli affluenti che hanno arricchito il grande fiume della lingua italiana, affluenti che per forza espressiva hanno dato più importanza e spessore alla nostra lingua nazionale. D’altronde erano preesistenti e costituiscono, per questo, vigorose e secolari radici che non vanno estirpate e che danno perenne linfa alla nostra lingua, per questo non vanno ignorate e dimenticate, anzi si deve fare di tutto per preservarle e valorizzarle.

Citando il ruolo della radio nella diffusione della lingua italiana, la musica (in maniera antitetica) può essere considerata una sorta di “resistenza culturale” a prevenzione dell’amnesia dialettale?
La musica se è di qualità e se è innervata da sperimentazioni, contaminazioni sia musicali che linguistiche da un mondo globalizzato in perenne movimento e metamorfosi rappresenta da sempre un baluardo da cui non si può prescindere ed è certamente una forma di “resistenza culturale” alle amnesie dialettali.

Nonostante i vari tentativi di portare il dialetto sui canali più “mainstream”, pare che questo non abbia mai veramente attecchito a livello commerciale, secondo la tua opinione quali sono i motivi?
Direi che ha attecchito a livello commerciale solo il dialetto napoletano che ha una lunghissima storia che trascende dall’uso tout court del dialetto e che per diversi motivi storici, che sarebbe lungo enumerare, ha avuto cittadinanza nazionale o addirittura mondiale.
La storia della musica napoletana con il suo dialetto e addirittura con una scala musicale propria ha influenzato anche in maniera importante la canzone italiana, molti artisti di caratura internazionale italiani e stranieri hanno cantato in napoletano facendo conoscere il patrimonio della canzone partenopea nel mondo.
Il fenomeno continua tutt’oggi non solo per quello che riguarda le canzoni classiche ma anche per quello che riguarda le nuove forme di canzone che passa dal jazz/blues di Pino Daniele alla trap di Geolier.
Per gli altri dialetti penso che bisognerà aspettare ancora un po’ tempo e non riesco a prevederne i risultati.

Tutti i dialetti italiani comprendono dei termini “intraducibili”: espressioni e parole che rendono perfettamente l’idea di ciò che intendono comunicare, ma non hanno un corrispettivo preciso in italiano. Parole come “bischero”, “cazzimma” o “bauscia”, espressioni idiomatiche che nascono in una zona specifica e che riportano la modalità espressiva di quel particolare ambito locale.
Ci sono termini dialettali siciliani che non puoi esimerti dall’utilizzare nella vita di tutti i giorni, in quanto magari arrivano dove l’italiano corrente si ferma?
Ce ne sono una quantità innumerevole e sono veramente intraducibili con una parola sola, ma per tradurle bisognerebbe usare lunghe perifrasi e non si riuscirebbe nemmeno a coglierne il senso più intrinseco.
Moltissime provengono da altre lingue altre hanno origini incerte.
Per via della sua complessa storia la Sicilia ha avuto innumerevoli dominazioni che hanno lasciato molte tracce nel suo dialetto di parole veramente singolari e intraducibili. Arabi, normanni, angioini, spagnoli, greci e perfino tedeschi, inglesi e chi più ne ha più ne metta! Provate a tradurre parole come: accura, ammatula , camurria, avaia-avà, peri peri… sono una sinfonia di suoni preziosa e affascinante.

Utilizzare il dialetto nella musica rock può aiutarla a mantenersi più “autentica”?
Il dialetto nella musica rock potrebbe ancora avere un importante valore aggiunto per via dei suoi suoni delle sue parole tronche della sintesi nel significato, e siccome il rock è figlio della cultura anglosassone e americana potrebbe degnamente sostituire, in molti casi, l’inglese, che ha caratteristiche simili.
Molti sono stati e sono gli esperimenti interessanti specialmente negli anni 90/2000, tuttavia c’è ancora una certa timidezza e resistenza a usare le lingue minori che potrebbero aiutare la musica rock ed essere più libera ,originale e autentica.

Domani, 28 Novembre, incontrerai il pubblico meneghino per un evento speciale in Cascina Sant’Alberto. Un dialogo su dialetto siciliano e musica pop: cosa dobbiamo aspettarci dalla giornata?
Spero sia una serata di grande festa con il pubblico, gli amici e i colleghi musicisti per brindare ai 33anni di questo disco che ha una sua età che penso non dimostri, perché a mio parere non ha perso la sua genuinità e nemmeno l’originalità che può dare spunti ancora molto interessanti sull’uso del dialetto nella musica pop.
Mi auguro un dibattito interessante e al tempo stesso leggero e divertente dove il passato dia spunti per parlare di futuro.

SUSANNA ZANDONÀ