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GIANGILBERTO MONTI – Intervista allo chansonnier milanese

GIANGILBERTO MONTI – Intervista allo chansonnier milanese

Giangilberto Monti, allievo di Dario Fo e dello storico regista televisivo Vito Molinari, è uno chansonnier, attore, scrittore e compositore, ma è stato anche autore di teatro, produttore discografico, studioso della canzone francese ed esperto della comicità musicale italiana, oltre che di storia del cabaret moderno. Ha pubblicato saggi e dizionari per Garzanti, ha scritto per comici e cabarettisti, ha ideato e interpretato spettacoli di teatro-canzone e ha curato rassegne sul cantautorato italiano. Questo è il suo 18° album come cantautore e interprete, di cui gli ultimi sono “Le Canzoni del signor Dario Fo” (Fort Alamo/Warner, 2018) e “Maledetti Francesi” (Freecom, 2019). Monti ha collaborato spesso con la Radio Svizzera Italiana (RSI), ideando radiodrammi musicali – come “La Belle Époque della banda Bonnot” (Prix Suisse 2004) – e programmi sulla storia dello spettacolo. Da esperto della chanson française ha pubblicato divertenti saggi storici, ha riassunto il suo mondo discografico in “Romanzo musicale di fine millennio” (Miraggi, 2016) e raccontato le canzoni di Dario Fo in “E sempre allegri bisogna stare” (Giunti, 2017), da cui è stato tratto uno spettacolo di narrazione musicale con la jazz band di Paolo Tomelleri.

Buongiorno Giangilberto, piacere di averti sulle pagine di Tuttorock. Innanzitutto complimenti per una carriera lunga e luminosa, basti ricordare due nomi, tra tutti quelli con cui hai lavorato, come Mia Martini e Dario Fo.
Diciamo che potrei scrivere un libro su ognuno di loro, oltre i due nomi che hai citato ci sono tanti altri incontri, anche con personaggi meno noti, e non solo del mondo musicale o dello spettacolo in generale. Penso di essere stato fortunato a incontrare poeti, pittori, scrittori, ad avere questi contatti importanti ai fini della formazione culturale e umana. Devo aggiungere che ho avuto la fortuna di iniziare la mia carriera nella seconda metà degli anni ’70, e nel ’76-’77 era un periodo d’oro per le contaminazioni artistiche.

Non essendoci molti anni di differenza tra di noi, posso dire che abbiamo vissuto tanti cambiamenti, siamo nati con le musicassette e ora siamo approdati allo streaming. Un cambiamento epocale dal vinile alla musica liquida, come lo vedi tu?
Sta sparendo il supporto inteso come oggetto fisico, anche se il vinile continua ad avere un suo mercato di appassionati. Io stesso scrivo sulla rivista Vinile, articoli che richiamano la memoria storica. Non scompare la musica come espressione senza tempo, ma cambia il modo di fruirne.  Certamente ci è mancata la musica dal vivo in questo ultimo anno e mezzo.

Tu poi sei l’alfiere di una particolare categoria di artisti musicali, gli chansonnier, la risposta italiana al grande Jacques Brel.
(risate) In effetti sono un poco anomalo da questo punto di vista. Ma molto semplicemente perché nella mia carriera, nella mia ricerca, ho mescolato tante arti alla musica, dal teatro al cabaret, ma la stessa scrittura è stata influenza da tutto questo. I generi musicali che ho attraversato sono stati tanti, sono passato dall’ascolto della musica greca, popolare, araba, al cantautorato sperimentale, arrivando a quello più classico. Poi sono arrivato anche al pop-rock anni ’80 quando ho lavorato con Flavio Premoli, uno dei fondatori della PFM, e con Roberto Colombo. In seguito sono arrivato al jazz, quello meno freddo, più divertente, per finire alla musica francese piena di colori. Dal mio punto di vista la musica è un formidabile veicolo per trasmettere idee e poetica, è importante quello che vuoi dire.

Negli anni ’70 la musica era veramente innovazione, sperimentazione, anche rivoluzione per certi versi. Non pensi che questa forza si sia un poco persa nel corso del tempo?
Ti posso raccontare questo esempio, sono andato a trovare il chitarrista con cui lavoro, Roberto Zorzi, e mi raccontava, abbastanza disperato, che molti suoi allievi vogliono imparare a usare in fretta gli strumenti elettronici, per diventare i producer di sé stessi.  Ma nei fatti non sanno suonare, assemblano dei suoni, dei beat, ma questo va a scapito di autenticità e improvvisazione. I talent non fanno altro che prolungare e replicare gli stilemi già esistenti, senza nulla togliere a chi vuole seguire queste strade.

Mi pare lo stile streaming, tipo Spotify ti riconosce le royalties solo se il pezzo viene ascoltato per almeno 30 secondi, e quindi tutti, a partire dalle case discografiche, tendono a fare pezzi facili e simili che catturino subito.
Ma guarda, questo esisteva anche già una volta per Sanremo, in quel caso, quando preparavi una canzone da proporre, ti rispondeva che però l’inciso doveva arrivare entro il primo minuto per avere presa. Vedi anche i comici, una volta c’erano dei tempi lenti, poi sono arrivate le gag, le macchiette, i tormentoni. C’è questa frenesia di arrivare alla parte bella, quando a volte questa nemmeno esiste e la bellezza è insita nella interezza della proposta musicale o artistica che sia. Ma bisogna anche precisare che non è che tutto il moderno sia da buttare via, certo che ciclicamente non è un momento particolarmente felice per l’arte, spero che con la ripartenza ci siano nuovi stimoli. L’artista vero non ha certezze assolute, è curioso e prova varie strade per arrivare al risultato, non si limita a fare copia e incolla.

Sicuramente ne avrai viste delle cose strane…
Ricordo Franco Battiato, eravamo in un teatro alla periferia di Milano, lui era arrivato da poco qui in città. Insomma, sale sul palco, si siede al pianoforte e inizia a suonare un tasto ottenendo quindi questa nota, tipo un “booom”. Va avanti così per 15 minuti, e devo dirti che il pubblico era perlomeno sconcertato a sentire questa unica nota ripetuta, una metà del pubblico se ne è anche andata. Poi si è iniziato a capire che la sua sensibilità era tale, che in realtà ogni nota era diversa dalla precedente, capendo quindi quello che voleva trasmettere, una sorta di meditazione musicale. Puoi immaginare se al giorno d’oggi, in un talent, uno facesse una roba del genere (risate), verrebbe cacciato via subito.

Bene, veniamo al tuo disco appena uscito, come è nato e cosa vuoi raccontare con questo album?
Non è un greatest hits, è la testimonianza di un viaggio musicale, sono 10 pezzi, nello spettacolo saranno di più, registrati poco prima del lockdown. Dentro hanno valorato con me musicisti provenienti da diverse estrazioni, dal jazz al blues a al pop, con citazioni dei vari personaggi che ho incontrato nella mia carriera. Quindi trovi da Dario Fo a Nanni Svampa, da Mauro Pagani a Enzo Jannacci, non sono quindi tutti pezzi miei, ma un misto con dentro anche pezzi miei e brani storici.  

Ho percepito anche, chiaramente, tanta energia ascoltandolo, tanta grinta sul palco.
Grazie dei complimenti, fanno sempre piacere. Ma tu che sei a Bologna, mi fai venire in mente un bravissimo musicista che vive lì, Paco D’Alcatraz, che scriveva i pezzi per Freak Antoni, gli Skiantos. Lo cercai per fare un lavoro riguardo due cd e un libro che misi assieme anni fa, la rivisitazione di un pezzo di Paolo Rossi, “In Italia si sta bene”, e fu bravissimo. Ricordo che quando lavora con la CBS, ora Sony, io facevo questi dischi e lui arrivò con dei 45 giri demenziali, è semplicemente geniale. Quando capito a Bologna cerco sempre di andarlo a trovare, così come altri amici che ho lì quali Stefano Nosei e Eros Drusiani. Mi fai venire in mente anche uno spettacolo che feci con Roberto Mercadini al Teatro del Baraccano su Boris Vian, molto bello.  

Bene, allora ti aspetto anche io a questo punto. Ma raccontami dei tuoi progetti futuri a proposito, magari un tour?
Adesso ho in programma questo spettacolo al Teatro Munari di Milano dall’8 al 12 giugno, una narrazione musicale basata sul disco che raccoglie musica e testo assieme. A ottobre uscirà un nuovo mio libro riguardo un famoso comico francese gli anni ’80, Coluche. Poi ci sono sempre le mie collaborazioni quale autore per la Radio della Svizzera Italiana.  

Certamente non abbiamo il tempo di annoiarci, vuoi aggiungere altro?
Visto che scrivi su Tuttorock, ci sono alcuni aspetti interessanti su questo genere, iniziando dai miei lavori con Mauro Pagani, all’opera rock “Guardie e ladri” che ho realizzato con Flavio Premoli negli anni ’80. Quello che è meno conosciuto è l’inizio e la fine del mio primo periodo discografico prog-rock, che iniziò con la tournée di fine anni ’70 assieme agli Osanna, che mi permise di conoscere tutto quel mondo musicale napoletano. Io facevo quello che apriva i concerti, partendo con un paio di pezzo, finendo suonandone 5 o 6. La chiusura di questo periodo è invece avvenuta con la tournée assieme al Banco del Mutuo Soccorso, con cui inizialmente suonavo il tamburello divertendomi tantissimo.  

MAURIZIO DONINI

Band:
Giangilberto Monti – voce, pianoforte

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https://www.youtube.com/user/GiangilbertoMonti