GIACOMO VOLI – Intervista al cantante
Ciao Giacomo, mi piacerebbe che, per iniziare, ci raccontassi la tua storia. Come hai iniziato ad avvicinarti alla musica e quali sono state le tue prime esperienze.
Come molti ragazzi mi sono approcciato al Rock grazie alle prime esperienze con una garage band a 17 anni.
Non cosi presto quindi.
Non così presto come altri. Abbiamo iniziato coverando i Queen, i Red Hot Chili Peppers, i Guns n’ Roses; quindi diciamo che la direzione che avevamo preso era un po’ questa. In particolare l’amore per i Queen mi viene da quando ero molto più piccolo e i miei genitori mettevano sul giradischi Kind of Magic e Innuendo, io poi riprendendoli verso i dodici anni sono rimasto ri-folgorato perché mi ricordavo le melodie di brani come Show must go on o One Vision da allora.
Ciò che ascoltiamo durante l’infanzia rimane sempre impresso in modo particolare.
Mi è proprio rimasto, ma più che altro per questa soluzione che da il Rock alla musica melodica classica. Perché i Queen hanno fatto questo, hanno unito la lirica e la classica con il Rock. Per esempio, Who wants to live forever è un pezzo tutto corale ed orchestrale che però poi si sfoga con la batteria e la chitarra. Per cui mi sono innamorato del Rock in questo modo.
Dopo ho avuto varie vicissitudini con diverse cover band: un tributo appunto ai Queen, uno ai Van Halen, uno ai Deep Purple e altre cover band generiche tutte però legate al Rock più classico.
In questo modo alla domanda su quali siano le band che hanno ispirato il tuo modo di fare musica hai più o meno già risposto.
Si, ma sono queste tanto quanto, per esempio, i Toto o l’esperienza di Jesus Christ Superstar. Non finirei più di elencare cantanti e musicisti che mi hanno ispirato.
Veniamo invece al momento in cui il grande pubblico ti ha conosciuto. Qual era l’obiettivo della tua partecipazione a The Voice? A cosa volevi che ti portasse?
La volontà in questi ambiti è un po’ ridotta, specialmente parlando di The Voice, nel senso che i talent che già hanno uno storico come X-factor o Amici hanno anche un modo di seguire coloro che vi partecipano un po’ costruito meglio. The Voice è un modo per farsi vedere, io ho detto di si perché era un’occasione per arrivare a tanti. Col senno di poi penso che valga la pena di fare quel programma particolare se si ha già un lavoro programmato, se si ha già un disco o comunque tante cose già pronte. Una volta che ci si è dentro si cerca di sfruttare il programma come si può, ma si è comunque un po’ chiusi. Io ho conosciuto tanti cantanti più bravi o più professionali di me che sono usciti prima ma per via del gioco. Quella è televisione e quindi ti costringe anche ad essere personaggio televisivo. Il che è molto diverso dall’essere personaggio nel mondo della musica.
Quindi, dopo avervi partecipato, come giudichi il mondo dei talent show musicali? Tralasciando la funzione di vetrina per gli artisti emergenti, credi che le trasmissioni siano credibili dal punto di vista artistico?
Sono valide se c’è modo di lavorare bene sulle persone che passano attraverso il programma. Ma il fatto che si coinvolgano così tanti individui rende impossibile seguire veramente i talenti. Vanno a prendere cento cantanti uno più bravo dell’altro, e tutti poi si sentono usati. Di per sé non è un male farsi conoscere attraverso la televisione. Ma devi poi essere tu ad essere forte di carattere per sapere in che tipo di situazione sei e poi per sopravvivere dopo la fine della trasmissione. Se ci si pensa anche quei cento big che girano in Italia sono ciò che è venuto fuori dalle dieci milioni di persone che dagli anni ’30 in poi ci hanno provato, per cui la musica è veramente per pochi. I talent ti fanno saltare il grosso step di arrivare ad un vasto pubblico in poco tempo, ma bisogna sapere che non si arriva da nessuna parte senza uno storico come, per esempio, avevano i Modà. Una band che, si, sono stati lanciati da una grossa produzione, ma per i dieci anni precedenti hanno fatto tanto, per cui avevano creato un zoccolo duro di fan che sicuramente li ha fatti esplodere ancora di più.
È da poco passato più di un anno dalla fine della trasmissione, cosa è successo dal giugno 2014 fino alla data di pubblicazione del tuo EP?
Ho cercato di cantare il più possibile dal vivo, e penso anche di essere stato graziato rispetto a tanti che cercano di fare del live senza riuscirci. Non è per niente facile mettere assieme delle buone date. Abbiamo concentrato attenzione sull’obiettivo di continuare ad esserci e far vedere che ci sono dal vivo, cosa importante soprattutto nel genere che faccio. Nel tempo che ci è rimasto abbiamo fatto le corse per far uscire l’EP. Che ci siamo autoprodotti perché avevamo cominciato in collaborazione con l’agenzia di Pelù, la quale ci ha aiutato per le date dell’estate 2014, ma purtroppo non riteneva di avere i mezzi per produrmi. Non ho mai vissuto altre situazioni come questa quindi non so fare paragoni ma credo che per essere seguiti in toto ci debba essere un vero e proprio investimento, sia in termini di tempo che di denaro. Per cui nel mio piccolo sono contento di ciò che siamo riusciti a realizzare, pur essendo un CD di sei pezzi. Adesso invece ci dedicheremo ad un CD di 9/10 pezzi, quindi un lavoro un po’ più articolato.
“Ancora nell’Ombra” è un titolo abbastanza emblematico, che significato ha? Ti aspettavi più “luce” dopo l’esperienza in TV?
Guarda, se ho un difetto è quello che non riesco a prendermi sul serio davvero, non semplicemente nel senso del ridere e scherzare, ma nel fatto che secondo me quando uno si prende troppo sul serio finisce un po’ la magia. Io mi sento uno che ha sempre bisogno di crescere, e questo titolo è rappresentativo di quello che è il momento attuale. Io l’ho fatto soprattutto per i fan che sono rimasti dall’anno scorso, pur non essendo mainstream e pur essendo stato impossibile farlo passare attraverso le radio (perché è un discorso molto più complicato di quello che sembra). Pero è un titolo che lascia aperta la possibilità che un domani ci sia la luce, il prossimo lo chiameremo “In Luce” (risate ndr).
Come è nato l’EP? I brani originali sono di tua composizione?
Si, testi e musica sono miei e sono nati tutti in modi diversi. Il brano composto prima di tutti è La fenice, il secondo del disco, ed è forse il più travagliato dei quattro brani originali. Nasce per via di un mio tradimento, è una riflessione su un errore fatto e su tutta la fase di sofferenza che io ho provocato e per cui soffrivo anch’io. Durante una situazione come quella che racconto nella canzone una parte di te vuole continuare a credere che sia possibile continuare la relazione, nel mentre però ti rendi conto che se è successa una cosa così grave lo strappo non si può riparare. Questo è anche il brano che, musicalmente, preferisco. Ridi nel tuo caffè invece è il quarto brano che si incontra sul disco ed è invece il secondo nella cronologia compositiva. È dedicato a Francesca Mercury (manager e booking agent di Giacomo ndr) perché la conosco da tanto tempo e ho seguito un po’ le sue vicissitudini e i suoi problemi. Lei li ha vissuti e ha fatto vedere come li viveva a chi la conosce. Il fatto di vedere una persona così sofferente, ma che affronta la vita con quel sorriso e con quella voglia di trasmettere agli altri tanta carica e tanta energia, mi ha portato a scrivere questo pezzo. Il brano successivo è Il vento canterà, che è il primo che si sente sul disco, è nato più o meno dopo The Voice, il riff mi è venuto in mente mentre ero in treno, e dopo è nato un testo un po’ cattivo, un testo Rock che parla dell’essere sfruttati e del fatto che è difficile che ti vengano riconosciuti i meriti di quello che fai. È un brano che ognuno può reinterpretare nell’ambito che preferisce; molti mi hanno chiesto se riguardava ciò che è successo a The Voice e…. ci può anche stare. In parte lo è. Infine Un capitale è il più frivolo dei quattro brani ma sicuramente è quello più Hard Rock. Mi piace eseguirlo dal vivo, ha molta carica. Parla dei sette peccati capitali per cui sbatte sulla parte un po’ più divertente del Rock.
Hai parlato prima di un album full-lenght. Secondo te quali sono le tempistiche? In quanto tempo riusciremo a sentirlo?
Spero di riuscire a dare delle date entro la primavera dell’anno prossimo. Adesso ci metteremo a fare delle pre-produzioni, a lavorare sui pezzi. Dipenderà anche dal fatto che dovremo cercare un produttore, o comunque una distribuzione. Se non sarà possibile lo faremo uscire autoprodotto come questo EP. Speriamo però di trovare delle occasioni perché dal trovare un partner dipenderebbe anche il discorso degli arrangiamenti. Se intervenisse una casa discografica, piuttosto che qualche personaggio che avesse voglia di metterci la faccia sarebbe bello anche poter lavorare assieme a qualcun altro.
E magari riuscire a par passare qualche pezzo per radio.
Ecco… eheh… il discorso è molto lungo. Tanti mi hanno detto ma “perché non fai passare niente su Virgin o su Capital?”, ma tutte le radio nazionali lavorano comunque attraverso le case discografiche. E se non sei dentro ad una major non c’è possibilità, a meno che, ed è per questo che dicevo prima che il live è la soluzione sempre migliore e più sincera, non ci sia un pubblico tale da dimostrare alle case discografiche che c’è voglia della mia musica e del nostro genere. Però ci vogliono anni per questo, per cui bisognerà vedere che tipo di strada si riuscirà a prendere.
Cambiando argomento, di recente hai avuto la prima esperienza in collaborazione col Banco del Mutuo Soccorso. Come sei venuto in contatto con loro e che sensazione hai provato nel condividere il palco con musicisti del loro calibro?
È successo grazie alle possibilità e alla visibilità che mi ha dato il talent. Giancarlo Amendola, che è il manager del Banco e che è stato il manager storico di Cocciante e di altri grandi della musica italiana, ha visto la trasmissione e, pensando che potessi essere una voce adatta a questo tipo di progetto, mi ha contattato. Io non mi sono lasciato sfuggire quest’occasione, anche perché parliamo di un gruppo che ha lasciato un segno grande, se non altro tra i nomi della musica italiana, pur magari non essendo una band famosa quanto le sorelle maggiori come la PFM, Le Orme o gli Area (anche se forse siamo lì) rimane comunque in una cerchia di gruppi che hanno fatto la storia del Prog Rock italiano.
Che è ciò che a noi italiani riesce meglio secondo me.
Eh, è un genere che ha permesso davvero una sperimentazione in Italia. Anche io nel mio EP ho cercato di fare il testone, nel combinare le musiche Hard Rock con l’italiano, il che è molto molto difficile; è una questione di abitudine ma è anche proprio la lingua italiana che non aiuta, in quanto bisogna comportarsi in maniera totalmente diversa componendo e scrivendo i testi. Comunque collaborare con il Banco è stato ed è un grandissimo onore e spero che questa collaborazione duri per tanto tempo. C’è in programma la registrazione dell’opera che sarebbe dovuta uscire con la voce di Francesco Di Giacomo, che è venuto a mancare l’anno scorso, opera che sarà ispirata all’Orlando Furioso. Abbiamo, come hai detto, fatto il primo concerto assieme, e l’emozione per me è stata fortissima, stare sul palco assieme a questi mostri sacri per me è un onore granissimo, ma per fortuna sono sopravvissuto (risate ndr).
Parlando della lingua italiana nell’Hard Rock hai in parte anticipato la prossima domanda. Su questo disco ti sentiamo cantare principalmente in italiano. Quando invece la maggior parte delle band Hard Rock preferisce l’inglese. A cosa si deve questa scelta?
Ti posso rispondere comunque perché al di là della difficolta della lingua italiana su questo genere, il tutto per me è partito dalla reazione che ha avuto il pubblico su Impressioni di Settembre (cover della PFM eseguita da Giacomo durante The Voice ndr). È un brano che può essere suonato con tanta carica Rock e tanta potenza, ma ha comunque un testo in italiano, non è quindi un connubio impossibile, ci vuole però un Mogol dietro ad ogni brano. Bisogna avere tanta forza anche nei testi, che io nel mio piccolo ho provato a dare, ma sicuramente non ho l’esperienza né la conoscenza per essere un Mogol, per cui spero un domani di trovare una collaborazione forte con qualche autore. La musica italiana è piena di grandi interpreti, ciò che serve però sono i grandi autori. Rifare la musica di Battisti o di Mina in chiave Rock funziona perché dietro ci sono dei grandi testi. L’EP è nato per mia testardaggine, ho voluto farlo da solo perché era strano dover chiedere aiuto subito a qualcuno di grande, però un domani spero di riuscire a trovare qualche buona collaborazione.
Parlaci invece della band che ti accompagna sul palco. La GVBand. Come si è formata?
È anche la band che ha registrato l’EP. Col chitarrista (Riccardo Bacchi) ed il tastierista (Mattia Rubizzi) ho suonato per tanti anni tra vari progetti e più vicissitudini. Col bassista (Federico Festa) condivido un tributo ai Van Halen da 3/4 anni. Col batterista (Demis Castellari) ho avuto una sola occasione live, però penso che sia il batterista più bravo della zona di Reggio. Ho cercato di mettere insieme vari tipi di gusto musicale che secondo me potevano vivere bene assieme in questo progetto. Ho suonato in tante band più o meno spesso ma in nessuna suonavo ciò che volevo fosse il mio sound da solista. Ho scelto i membri della mia band in base a questo.
Cosa si deve aspettare uno spettatore da un vostro live show? Cosa cerchi di trasmettere quando sei sul palco?
Io mi sento un po’ tendente al dark, amo le melodie minori, le esplosioni nei ritornelli, il fatto di arrivare ad un climax durante il pezzo, per cui con gli altri musicisti abbiamo cercato di partire da quello che poteva essere un sound alla Whitesnake o alla Dream Theatre, e di arrivare a quello più moderno degli Alter Bridge o degli Skunk Anansie. Partire da un Hard Rock melodico, ma suonato in chiave più moderna. È chiaro che alcuni dei classici che facciamo, come quelli dei Led Zeppelin, rimangono un po’ più fedeli. 2/3 della scaletta al momento rimangono cover, anche perché il pubblico che ci viene a vedere se li aspetta per ora. Non che mi dispiaccia farli ma un domani, piano piano, cercheremo di sostituirli con pezzi originali, o se non altro fare degli esperimenti su pezzi non nostri ma che abbiamo totalmente stravolto per dire qualcosa di nostro nonostante siano cover. Perché altrimenti…
…ci si può metter su il CD.
Esatto! Il bello è che sperimentando in questo modo, anche noi stiamo trovando l’amalgma e il sound per il disco che verrà. Stiamo trovando un linguaggio comune suonando spesso e facendo poco lavoro in studio tutti assieme, anche perché tutti gli altri hanno già un lavoro da dipendenti, io sono l’unico che per adesso sta cercando di vivere la vita da musicista. Non è semplice perché bisognerebbe trovare il tempo di poter vivere assieme una giornata o un mese per suonare e partorire delle idee. Cosa che però nel nostro contesto è molto difficile, penso che siamo anche troppo bravi e propositivi vista la situazione.
Una delle ultime cose. È evidente che, nel nostro paese, il nostro amato Hard Rock è destinato a rimanere un genere underground. Credi che un Pop Rock di qualità alla Negrita sia un buon compromesso per raggiungere il successo mainstream, o intendi rimanere fedele allo stampo più duro della musica?
Guarda, l’unico che, nonostante l’età ed il fatto che magari non abbia più tantissimo da dire, abbia provato a fare qualcosa di quasi Metal è Vasco (risate ndr). Non capisco se questo genere è bistrattato perché non ci si crede o per altri motivi. Non lo so. È un discorso molto complicato. I Negrita quando hanno iniziato erano molto interessanti, così come i Timoria o i Litfiba, hanno fatto bellissime cose. Mi piace anche che una band possa evolvere, come hanno fatto i Muse o i Queen, nel senso che hanno veramente suonato di tutto. Però il tipo di sound è sempre rimasto Rock. Band come i Negrita personalmente mi piacciono, ma nessuno osa più di tanto. Quelli che provano a farlo non sono promossi dalla grande distribuzione e quindi rimangono di nicchia. Anche nella musica Rap, per esempio, Salmo è uno di quelli che hanno fatto cose spaziali nel suo genere, però non è famoso come Fabri Fibra, Fedez o altri. Dipende proprio da quanto una casa discografica è disposta a scommettere su un artista, ritorno a dire che ci vuole tanta pazienza e tanti sforzi nei live. Dal canto mio spero di fare un buon prodotto nel disco che verrà. Che poi d’altra parte alcuni mi hanno detto che anche questo EP è troppo Pop. Alcune recensioni hanno detto che è schematico e che è troppo orecchiabile, per cui non metti mai d’accordo nessuno fino in fondo. Il che è anche vero perché ciò che abbiamo fatto è molto ascoltabile, non è niente di esagerato. Noi vorremmo fare qualcosa di molto più complicato, però se avessi cominciato subito a fare del Prog incomprensibile con dei testi stralunati sarebbe stato un salto troppo grande. Ci arriveremo per gradi attraverso la sperimentazione.
Dove pensi di essere tra 10 anni? Musicalmente, qual è l’obiettivo che ti poni?
Mi sono dato un tempo di cinque anni per vedere un po’ se sarei riuscito a vivere solo di musica. Questo è l’obiettivo. Non quello di riuscire a fare chissà cosa ma anche solo di riuscire a fare quello che mi piace guadagnando quello che mi basta per vivere e arrivare a fine mese. Che non significa dover andare per forza negli stadi. Io spero semplicemente, in dieci anni, di riuscire a fare più lavori miei e di riuscire a creare un pubblico consistente che mi permetta di continuare. Spero che questo bel sogno non sia troppo pretenzioso. La cosa che fa più piacere è trovare persone che apprezzano quello che fai. Perché alla fine facciamo questo per chi ci ascolta. In alternativa mi riciclerò come insegnante di canto o come grafico. Poi magari tra dieci anni finisce il mondo quindi non sarà più un problema (risate ndr).
Abbiamo finito. Un saluto ai nostri lettori?
Grazie! Saluto i lettori di TuttoRock e vi aspetto ai concerti!
Buona fortuna per tutto!
MARCO RAGGI
La recensione del disco
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Attiva da molti anni nel panorama musicale emiliano, Francesca Mercury si occupa di management e produzione in veste di talent-scout e promoter. È organizzatrice di eventi e ricopre il ruolo di stage manager in festival di importanza nazionale. È direttore artistico di progetti e format musicali e teatrali, molti dei quali sono proposti dall’Associazione Musicale “Avanzi Di Balera”, della quale è presidente. Fa parte del team redazionale di "Tuttorock", per il quale cura la rubrica "Almanacco Mercury", presente anche sulle maggiori piattaforme social e in programmi televisivi e radiofonici. Si occupa di formazione nelle scuole di musica emiliane e porta avanti iniziative dedicate alla storia della musica. Ama i suoi figli, le scarpe, la mortadella e Freddie Mercury.