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FRANZ CAMPI – Intervista al cantautore bolognese

FRANZ CAMPI – Intervista al cantautore bolognese

Ho avuto il piacere di fare una bella chiacchierata con Franz Campi, cantautore bolognese classe 1962 che presenta il suo nuovo album “Il sentimento prevalente” (Azzurra Music).

Ciao Franz, benvenuto su Tuttorock, parliamo di questo tuo disco, “Il sentimento prevalente”, come sta andando, che riscontri stai avendo?

Ciao Marco, grazie! Finalmente si muove qualcosa, ero molto preoccupato nel fare un disco dopo tanto tempo, sai, ho una certa età, sono un uomo del passato ed è come se una macchina del tempo mi avesse catapultato dagli anni dei cantautori ai giorni nostri, un po’ di dubbi li avevo. Stanno arrivando bellissime recensioni e anche il pubblico comincia a mandarmi dei bei segnali con qualche vendita e soprattutto con l’ascolto dei brani attraverso il passaparola. Abbiamo girato due video, un altro uscirà a giorni e tra poco registrerò il quarto, c’è un grande lavoro di comunicazione da parte di Parole & Dintorni di Riccardo Vitanza perché vogliamo far arrivare questo mondo canzoni a chi ancora ha voglia di ascoltare legni, corde e parole che vogliono dire qualche cosa. Questo album è un lavoro d’insieme frutto della creatività mia, di Davide Belviso e di altri musicisti che hanno scritto musiche o hanno fornito la loro arte attraverso uno strumento. Una cosa molto bella è stata la partecipazione di Mariano Speranza con i suoi Tango Spleen che è una formazione musicale che mi piace tantissimo, poi anche di autori come Gino De Stefani che ha scritto grandi successi di Laura Pausini, poi Daniele Furlati che ha scritto le musiche dei film di Giorgio Diritti. Insomma, c’è tutto questo insieme di artisti che hanno fatto squadra perché hanno apprezzato quello che avevo scritto e i temi che stavo affrontando, volevo buttare un salvagente a chi è in difficoltà perché non capisce più questo mondo.

Problematiche legate alla società contemporanea, arte, storia, quando scrivi una canzone parti da un tema, da un testo, da un accordo, o dipende dai casi?

Io sono un comunicatore, parto da qualcosa che mi colpisce e voglio condividerla con gli altri. Ad esempio, “Venda l’oro”, è una canzone ironica che ho scritto dopo aver letto un articolo su un giornale che raccontava la storia vera di questa signora anziana che doveva essere operata. Il professore da cui era in cura le disse: “Signora, metta le mani sul portafoglio e venga nella mia clinica privata, se non ha i soldi venda l’oro di famiglia”. Essendo io un amante della lettura e del cinema, questa cosa mi ha catapultato nel film di Alberto Sordi “Il medico della mutua”, tratto dal romanzo di Giuseppe D’Agata, ho scritto musica e testo e Davide Belviso ha curato l’arrangiamento. Voglio far precipitare chi mi ascolta in quella dimensione raccontando una storia vera che si lega ai problemi della società in cui viviamo, in questo specifico caso della sanità.

Ho percepito, in alcuni brani, quella “bolognesità”, quel sound alla Lucio Dalla, alla Samuele Bersani.

Assolutamente sì, io sono intriso di quel suono. Si parla spesso di scuola bolognese, a forza di stare in mezzo a questo magma non ci rendiamo conto che, quando ci mettiamo anche noi davanti ad un microfono o con in mano una chitarra, in qualche modo facciamo parte di quel mondo di cui Lucio Dalla era il capo indiscusso e chi ci ascolta se ne accorge. Secondo me ne abbiamo bisogno di questo, in questa omogenea proposta di oggi, quasi industriale, io ho nostalgia dei suoni fatti da legni e corde.

Non parli solo di attualità ma anche di partigiani, non noti anche tu che l’interesse per la storia stia svanendo?

Hai fatto un esempio perfetto, ho voluto mettere nell’album il brano “Lettera di un condannato a morte della resistenza” per questo motivo, perché abbiamo sentito parlare di dittatura sanitaria, la gente ha perso il senso della dimensione, della storia passata. Questo brano racconta le lettere scritte da questo uomo che doveva salire sul patibolo per perdere la vita in nome di una libertà che ha permesso anche a noi, oggi, di dire le sciocchezze che leggo sui giornali e soprattutto sui social. Adesso che stiamo uscendo dalla pandemia ce lo sta ricordando Putin cos’è un dittatore, cosa vuol dire non poter esprimere un dissenso, è frustrante pensare che tanta gente abbia inneggiato a Putin perché era l’uomo forte, l’uomo che non si perde nel parlare della complessità dei problemi. La vita è complessa e bisogna purtroppo parlarne magari facendo degli sforzi per poter semplificare un po’ le cose. Questa gente che taglia le gambe a tutti i discorsi della complessità lo fa perché la loro scorciatoia è: “decido io e tu stai zitto, se protesti sei un terrorista e ti fai 15 anni di galera”, questa cosa penso che agli italiani non piaccia molto quando viene sulla loro pelle, ci siamo dimenticati della storia.

Poi c’è un brano su Chagall.

Quello è un brano importante per me perché mi rappresenta molto. Io sono devotissimo ai grandi artisti e Chagall lo era. Italo Calvino aveva studiato moltissimo il meccanismo delle favole e aveva notato che moltissime volte il protagonista delle fiabe vola o comunque compie salti enormi o si trasforma in uccello. Questa cosa dello staccarsi da terra, dal punto di vista simbolico, è la volontà di sollevarsi dalle fatiche quotidiane, Chagall è l’uomo che decifra questa nostra ancestrale voglia di liberarsi dal dolore attraverso la fantasia e il volo. Tutta questa gente che vola rappresenta la sua vita da ebreo che scappa dal dolore attraverso la fantasia, attraverso l’arte. Ho provato a immaginare questa sua vita, il suo punto di vista e di come ringraziava Dio per questo grande talento che gli permetteva di arrivare al cuore delle persone.

La copertina da chi è stata fatta?

L’ha fatta Marco Mioli con la sua compagna Barbara Guarino, volevamo qualcosa in stile Escher che raccontasse le difficoltà della vita quotidiana e dell’essere felici al giorno d’oggi. Loro l’hanno reinterpretata aggiungendo un aquilone che rappresenta noi stessi che vogliamo uscire da queste difficoltà liberandoci verso il cielo. È riuscita molto bene e ce ne siamo innamorati.

Quando hai scritto “Banane e lampone” per Gianni Morandi ti aspettavi un successo così grande?

È diventata un evergreen, per me è una soddisfazione enorme, una gioia che non avrei mai immaginato, già per me scrivere per Gianni Morandi significava prendere l’Oscar alla carriera, vorrei scrivere ogni giorno brani così ma non me ne sono più venuti (ride – ndr). È una canzone popolare, semplice, divertente, leggera che, quando la canto, ancora adesso sento la gente che fa il coro.

Poi nel 1994 arriva il Festival di Sanremo, cosa ti porti dentro di quell’esperienza?

Al Festival ci tornerei ogni anno, se fai questo mestiere andare a Sanremo è come per un pilota di Formula 1 gareggiare sul circuito di Monza. Quando ho partecipato al Festival era l’anno in cui Pippo Baudo aveva ripreso in mano le redini, c’era una selezione molto forte, i miei rivali nella gara dei Giovani erano Irene Grandi, Giorgia, Andrea Bocelli, non era facilissimo emergere però, se faccio ancora questo mestiere, significa che qualcosa di buono da dire l’avevo. Ci fu poi un episodio buffo, volevo partecipare con un brano che si chiamava “Beatrice”, solo che nella canzone c’era una parolaccia, allora Pippo mi disse che non si poteva fare, e mi costrinse a scrivere un’altra canzone che non era una delle mie migliori. Il bello è che arrivai a Sanremo mentre Giorgio Faletti faceva le prove e ripeteva “Minchia signor tenente” (ride – ndr).

“Se non avessi un grande amore sarei uno stinco di maiale” cantavi, e oggi “dammi un panino e affetta un po’ di quella mortadella”, che ruolo ha la cucina nella tua vita?

Ha un ruolo importantissimo, sono emiliano e, per uno dei tanti casi della vita, sono diventato un collaboratore del Consorzio della Mortadella Bolognese IGP da 3 anni e vado in giro per l’Italia a raccontare la storia della mortadella, purtroppo il maiale è nel mio destino (ride -ndr).

Come riesce la formula teatro-canzone a resistere a questi tempi in cui la superficialità la fa da padrona?

Il fatto è che quando sei a teatro fai un patto con il pubblico, in quel momento si staccano i telefonini e si parte insieme per un viaggio, come se ci trovassimo su un’astronave. In questo percorso le canzoni non bastano, il pubblico ha allacciato le cinture e accende orecchie, mente e cuore per ascoltare dei racconti. È una formula che piace moltissimo, la gente ha finalmente il tempo e la voglia di ascoltare una storia completa. La musica mi aiuta tantissimo ad agganciare le parole che racconto con le emozioni che voglio trasmettere, è una cosa fantastica e la gente che esce da questi spettacoli è contenta perché ha ascoltato musica suonata bene e ha imparato qualcosa di mondi che non conoscevano. Una volta sono Alberto Rabagliati, una volta Fred Buscaglione, una volta racconto la storia dell’arte, un’altra volta parlo del cibo, è una sensazione appagante per tutti.

Hai qualche evento in programma che vuoi presentare?

Il 9 aprile saremo a FICO per parlare di cibo, il disco invece lo presenteremo a Sasso Marconi il 3 maggio, lo spettacolo relativo ad esso lo sta finendo Alessandro Vanoli e debutteremo in autunno. Poi ci sono i concerti di “Canta che ti passa” e in estate arriveranno anche i concerti di Fred Buscaglione. In ottobre torneremo a Bologna con il tributo ad Alberto Rabagliati. Mi piace molto cambiare, avere repertori in testa di molti spettacoli diversi. Per fortuna stanno tornando i concerti, sono stati tempi molto duri per chi fa il musicista.

Grazie mille per il tuo tempo, ti lascio la libertà di chiudere questa intervista come vuoi.

Grazie a te Marco, abbiamo detto tutto, spero che le cose migliorino in fretta perché i musicisti devono andare sul palco.

MARCO PRITONI