FILIPPO DALLINFERNO – Intervista su “Aquarius”
In occasione dell’uscita del suo nuovo album “AQUARIUS” ho intervistato la band FILIPPO DALLINFERNO.
Ciao Filippo, vuoi iniziare a raccontarci come ti sei avvicinato alla musica? Quali sono stati i tuoi primi ascolti?
Ciao Maurizio! Sono cresciuto in una casa dove c’era sempre tanta musica e tantissimi dischi a disposizione, ho iniziato a suonare la chitarra a sette anni. Uno dei primi dischi che mi ha rapito è stato “Let It Bleed” dei Rolling Stones, verso la metà del brano “Midnight Rambler” c’è un momento in cui la band si zittisce e rimangono Jagger e Richards a trascinare voce e chitarra in un modo davvero magico, credo che sia stato quel piccolo stralcio a fulminarmi definitivamente. Mia mamma aveva la cassetta in macchina ed era un classico del tragitto tra casa e scuola, custodisco ancora quella stessa cassetta gelosamente.
Leggendo la tua biografia vedo come ci siamo incrociati spesso, trasversalmente, dai The Fire dell’amico Olly Riva, ai Rezophonic dell’altro amico Mario Riso, per arrivare ai Casablanca dell’ulteriore amico Max Zanotti, che ho rivisto recentemente per i Bloom. Aggiungiamo tutti gli altri, dai Deep Purple ai Gotthard e via dicendo, cosa ricordi e cosa ti hanno dato tutte queste esperienze? Con un filo comune direi, il rock.
Tutte queste esperienze sono state fondamentali per me. Saper suonare non significa necessariamente avere un mestiere tra le mani. Il percorso che ho fatto mi ha insegnato ad essere professionale, suonare nell’economia di una canzone e condividere in maniera sana e umana i momenti con le altre persone, sul palco e non.
Ti ricordi la tua prima chitarra? Adesso quale usi come preferita?
La mia primissima chitarra, come per molti altri, è stata una classica economica su cui ho imparato i primi accordi, in verità la regalarono a mia sorella ma nel giro di qualche giorno me ne appropriai brutalmente. Poi, compiuti i quattordici anni, mio padre mi disse “Oggi andiamo a cercare un regalo per festeggiare il tuo esame di terza media”. Mi portò in un concessionario di moto, io impazzivo all’idea di avere finalmente un motorino ed ero super gasato, scegliemmo quello giusto che avremmo acquistato la settimana seguente. Lungo il tragitto c’era un bellissimo negozio di chitarre chiamato Nerolidio dove tralaltro prendevo lezioni. Ci fermammo per un saluto. Mi fermai davanti a una bellissima Gibson Les Paul con i p90 e mio padre mi disse “Se vuoi puoi averla, però niente motorino”. E’ andata a finire che girai a piedi per un bel pò, ma con una bellissima chitarra sempre con me. Ho ancora quella chitarra, è la mia preferita, quella a cui sono più legato. La puoi ascoltare nella strofa di “All’ombra di Venere”. Ci ho fatto tantissimi concerti, ora la tengo a casa, ha un valore affettivo troppo grande per rischiare di perderla o danneggiarla. Da qualche anno uso una Fender Telecaster ’52, la adoro, è la mia chitarra perfetta e gran parte dell’album è stato registrato con quella.
Aquarius e l’era dell’Acquario richiamano subito alla mente la storica musica di Hair, Roberta Kelly, una citazione importante da riportare nella tua arte. Come hai deciso di lavorare su questo?
Il sound di questo disco, e del mio chitarrismo in generale, si rifà molto al periodo di fine anni ’60 e la prima metà dei ’70. “Aquarius” si riferisce proprio al concetto di “era dell’Acquario” spesso citato in quel periodo storico. Nel 2020, con la congiunzione dei pianeti Giove e Saturno siamo entrati ufficialmente in questa era che dovrebbe portare con sé un risveglio della coscienza umana, dei rinnovati valori di solidarietà e democrazia, la rinascita del rispetto e della cura del pianeta e il definitivo fallimento di vecchi schemi sociali e religiosi. In pratica un’elevazione spirituale e culturale della nostra specie. Ho affrontato questo macro-tema attraverso diversi personaggi e attraverso i loro occhi ho cercato di descrivere questo percorso verso il riscatto sociale, la redenzione e la guarigione. Anche a livello musicale ho seguito questo concetto, cercando di staccarmi il più possibile dallo schema canzone e lasciando che la musica prendesse forma in una sorta di flusso di coscienza. La fase embrionale di questo lavoro era una singola traccia da 30 minuti.
Se fosse un vinile avrei già consumato il tuo disco, cantato duro e spigoloso, sound abrasivo, testi raffinati e potenti. Come funziona la tua scrittura, prima la musica poi il testo o viceversa? A cosa ti ispiri per la scrittura?
Il mio modo di scrivere è molto variabile. In passato la mia formula standard era partire dai testi in italiano che poi avrebbero suggerito naturalmente la musica. Per questo lavoro invece è successo il contrario, ho avuto un lungo periodo in cui mi interessava scrivere solo musica e solo con la chitarra e incredibilmente tutta questa musica ha poi portato con sé i testi in una maniera così naturale che io stesso ne sono rimasto stupito. In generale quando scrivo cerco sempre i contrasti, dire cose molto dolci urlando e cose molto taglienti sussurrando ma non è una regola. L’unica cosa che non cambia quasi mai è la ricerca metrica, la componente ritmica dei miei testi è fondamentale per me.
Ti muovi tra brani molto rock e altri più power ballad come L’ombra di Venere, hai un brano preferito nel disco?
Il mio brano preferito è “Madre Fortuna”, è quello che, secondo me, rappresenta meglio questo album e l’artista che sono oggi.
Come hai trovato il Cosmonauta Zavadovsky? Che significato gli hai voluto dare?
Sono sempre stato affascinato dallo spazio e dalla ricerca scientifica in questo campo. “Il cosmonauta Zavadovsky” è liberamente ispirato alla storia dei cosiddetti cosmonauti fantasma. Durante la guerra fredda la corsa allo spazio si trasformò in un vero braccio di ferro tra USA e Russia che pur di primeggiare si presero rischi più o meno noti. In particolare, la storia dei fratelli Judica Cordiglia mi ha sempre affascinato. Si tratta di due radioamatori che negli anni Sessanta sostenevano di riuscire ad intercettare le comunicazioni tra le basi terrestri e i cosmonauti, svelando anche la scomparsa di alcuni di essi al rientro nell’atmosfera. Ovviamente tutte informazioni mai confermate. Il brano parla proprio di questo, di un cosmonauta pronto ad intraprendere un viaggio in nome della scienza e della conoscenza anche a rischio della vita.
Sotto i fari del Bennet è fantastica, il feat di Musselwhite si inserisce in maniera perfetta, come sei riuscito a coinvolgerlo e che esperienza è stata lavorare con lui e con Vincent?
È successo tutto molto in fretta. Il mio manager era in contatto con il suo entourage e gli abbiamo mandato il brano, gli è piaciuto e ha voluto registrare delle take da poter inserire nell’arrangiamento. Pur non essendoci incontrati di persona devo dire che parlare con lui via mail è stata una grande emozione, è un mostro sacro del blues americano ed aver costruito questo ponte tra Clarksdale Mississippi e Torino è stata una grande soddisfazione per me.
Mi è piaciuta tantissimo anche la batteria di Turri, su L’imperatore è fortemente caratterizzante, ad esempio.
Io e Nick ci siamo conosciuti tanti anni fa nello studio di Guido Style, lui a quell’epoca era il batterista dei The Styles e Guido era uno dei miei migliori amici. Ho sempre apprezzato il suo batterismo e anche a livello umano ci siamo sempre trovati, gli voglio un gran bene. Quando è arrivato il momento di scegliere la persona giusta per l’ingrato compito di suonare le parti di batteria che avevo scritto la scelta è stata molto naturale. Devo dire che ha fatto un ottimo lavoro.
Hai un tour in programma dopo l’uscita del disco?
Assolutamente si! Per ora presenteremo il disco a Torino al Magazzino sul Po il prossimo 10 ottobre e a Milano all’Arci Bellezza il 17 Ottobre, il 12 Ottobre invece apriremo con grande piacere il concerto dei Marlene Kuntz a Lugano.
Altri progetti in cantiere?
Ho sempre tante idee e progetti in testa, ad oggi il più importante e interessante è il mio nuovo studio di registrazione a Torino dove mi sto dedicando a diverse produzioni e coinvolgendo diversi musicisti della città, vorrei creare un gruppo artistico e creativo solido e produrre musica in modo organico e artisticamente sincero.
MAURIZIO DONINI
Band:
Filippo Dallinferno: voci, chitarre, basso, tastiere, percussioni
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CEO & Founder di TuttoRock - Supervisore Informatico, Redattore della sezione Europa in un quotidiano, Opinionist in vari blog, dopo varie esperienze in numerose webzine musicali, stanco dei recinti mentali e di genere, ho deciso di fondare un luogo ove riunire Musica, Arte, Cultura, Idee.