EUGENIO SOURNIA – Intervista al cantautore livornese
In occasione dell’uscita del primo omonimo disco solista, prodotto da Emma Nolde e pubblicato da Carosello Records, ho avuto il piacere di intervistare Eugenio Sournia, cantautore livornese classe 1991. Autore di grande talento, Eugenio ha sempre amato scrivere fin da piccolo.
È stato frontman e autore principale della band livornese Siberia, con la quale ha pubblicato tre album. Il disco d’esordio, uscito nel 2016, è “In un sogno è la mia patria” (Maciste Dischi), un lavoro profondamente intimista, seppur energico e aggressivo. In una parola “urgente”. Il secondo, “Si vuole scappare” (Maciste Dischi), esce nel 2018 ed è prodotto da Federico Nardelli; è un lavoro dark pop e rappresenta un riuscito connubio tra lʼesasperazione new wave e la dolcezza del cantautorato italiano. Il terzo, sempre prodotto da Federico Nardelli, esce a fine 2019 e si intitola “Tutti amiamo senza fine” (Sugar / Maciste Dischi), raccogliendo sensazioni e ricordi che costruiscono una storia precisa ma universale, quella dell’amore di ogni tipo: erotico, relazionale, sentimentale, religioso, pensato, fisico, sognato.
La band, che oscilla tra il post-punk\new wave degli esordi e l’indie rock, tiene in quegli anni una cospicua attività live impreziosita da aperture di livello nazionale e internazionale (Cure, Interpol, Paul Weller, Editors, Baustelle…), e vanta inoltre la partecipazione a numerosi programmi radiotelevisivi (Sanremo Giovani, Quelli che Il calcio, Stati Generali, Radio 2 Social Club, ecc.). Nel 2020 la band si scioglie.
Ciao Eugenio, benvenuto su Tuttorock, parliamo subito di questo tuo primo EP del tuo progetto solista, da me apprezzatissimo, che riscontri stai avendo?
Grazie a voi e grazie dei complimenti! Sono molto felice di aver fatto uscire questo Ep, per me è stato un vero e proprio parto, perché per mesi e mesi non ero riuscito a trovare la situazione giusta per farlo uscire a livello organizzativo e discografico, complice anche il caos creato dalla pandemia. Non ero partito con grandi aspettative a livello di risultati numerici, ma devo dire che i riscontri di prima mano da parte degli ascoltatori hanno dato un senso a tutta questa fatica, sto ricevendo tanti messaggi davvero belli che mi hanno gratificato e fatto sentire utile e vivo. Negli ultimi giorni poi è arrivata la notizia della vittoria del Premio Ciampi, che da grande ammiratore del cantautore a cui è intitolato (e da livornese) mi rende particolarmente fiero.
Com’è avvenuto il processo di creazione e scrittura dei brani?
I brani sono sgorgati inizialmente senza difficoltà. Si trattava dei primi mesi della pandemia, e lo “schiaffo” dato dal dolore è sicuramente stato una grande ispirazione, come una sorta di filtro. Solitamente, nella scrittura, mi capita di avere dei brani “apriporta” che segnano la via per quelli successivi; ciò è successo più o meno in ogni disco che ho affrontato fino ad ora. In questo caso è successo con “il dolore è una porta”, ironia della sorte: ho capito che dovevo scrivere senza infingimenti, senza cercare l’accessibilità, ma dando libero sfogo, in un certo senso, a quella pesantezza che avevo cercato di reprimere nell’ultima fase della carriera con i Siberia.
La produzione è affidata ad Emma Nolde, com’è nata la vostra collaborazione?
Conoscevo Emma da quando aveva 16 anni e veniva spesso a Livorno per partecipare ad un “open mic” locale; già allora era possibile intuire la sua vocazione totalizzante verso la musica. Avevo effettivamente registrato i miei brani in una prima versione prodotta con l’ausilio di Andrea Rodini, che tutt’ora resta al mio fianco nella direzione artistica; tuttavia, con il parere di Carosello (la mia etichetta) abbiamo puntato ad una produzione più ambiziosa, che potesse inserire degli elementi aggiuntivi a livello sonoro in brani dal forte sapore classico. Emma è stata la scelta giusta: ha una devozione verso la cura del suono e l’arrangiamento, mentre io sono più attento alla cura del testo e della classica forma canzone. Il rischio che si creasse una sorta di chimera era elevato; in realtà però la mano di Emma sui brani si è fatta sentire nella maniera più giusta, rendendoli a mio avviso più densi ad un secondo ascolto ma senza snaturare l’intimo di ciascuna canzone.
Dopo una decina di anni all’interno di una band hai deciso di intraprendere una carriera solista, è più semplice o più difficile affrontare il mondo della musica da soli?
È sicuramente diverso, in primis da un punto di vista psicologico. Trovo che da solisti occorra essere molto più “foderati”, perché si affrontano gli urti di questo mondo da soli o quasi. Sono molto egocentrico, ma non ho quel sacro fuoco di ambizione e egomania che porta alcuni a procedere “a gomiti alti”, cercando disperatamente di emergere. Credo che la mia musica abbia un valore, credo di dovermi impegnare con serietà e professionalità per promuoverla, ma senza esagerare. Al tempo stesso, essere soli permette una maggiore e quasi totale libertà per quanto riguarda le scelte artistiche: non nego che questo sia stato uno dei motivi principali che mi hanno portato ad allontanarmi dalla band. Quando si ha una visione, essere parte di un gruppo richiede necessariamente di smussarla e ricalibrarla sulle esigenze di tutti: credo che una band possa funzionare davvero se essa è in qualche modo democratica, se ognuno apporta qualcosa anche a livello decisionale. A lungo andare questo stato di cose può finire per risultare castrante, come abitare costantemente in una casa troppo piccola. Ciò non vuol dire in alcun modo che non apprezzassi l’apporto fornito dagli altri, o che escluda di fare cose con loro in futuro!
Quanto ha influito la pandemia sullo scioglimento dei Siberia?
Non andrò a mentire, la pandemia è stata probabilmente determinante per causare lo scioglimento del gruppo. Senza girarci troppo intorno, avevamo rilasciato da poco un terzo disco molto più pop dei precedenti, che se non aveva “sfondato” a livello di stream aveva però delle discrete prospettive a livello live, che stavano iniziando a concretizzarsi proprio nei giorni precedenti lo scoppio dell’epidemia in Italia. La frustrazione e la preoccupazione per la situazione mondiale, ma anche per quella dei Siberia, trovatisi improvvisamente a non poter fare concerti per un periodo di tempo indeterminato, ha fatto esplodere l’insoddisfazione che covavo da tempo a livello artistico. Le lunghe giornate di lockdown mi hanno dato la possibilità di scrivere e riflettere su come vedessi il mio percorso artistico allontanarsi dalle dinamiche di band di cui ho parlato sopra. Inutile dire che è stato un momento estremamente difficile, perché queste vicende artistiche e personali si sono sovrapposte al periodo terribile vissuto dal nostro Paese e dal mondo intero; ho anche avuto la cattiva idea di provare a rinunciare agli psicofarmaci nel 2020 – una combo interessante.
Il tuo nome, Eugenio, so che è stato scelto da tua madre in onore di Eugenio Montale, quanto è stata importante la poesia per te e quanto lo è ancora?
Sicuramente tuttora mi considero più un autore di testi che un musicista. Nei confronti della musica ho una totale reverenza, e proprio per questo mi considero uno strimpellatore, un improvvisato con dei momenti fortunati e qualche piccola dote innata. La parola è invece sempre stata la mia vera passione: sono una persona estremamente loquace, ma in generale da quando sono bambino amo la poesia, leggerla e scriverla, e grazie ad essa in qualche modo cercavo anche il mio posto nel mondo. A nove, dieci anni scrivevo poesie alle mie coetanee, vi lascio immaginare con quali esiti…ma per me è sempre stato il mezzo privilegiato. Ancora oggi la parte centrale delle mie canzoni la considero senz’altro il testo: non nego che mi piacerebbe trovare il melodista perfetto, per potermi concentrare solo sulle parole. Mi piacerebbe che qualcuno diventasse il mio Johnny Marr, io che sempre provato un grande amore per Morrissey e la musica degli Smiths in generale. I miei poeti preferiti da ragazzo erano Montale e Ungaretti (specie il secondo). Crescendo mi sono avvicinato anche a poeti più moderni e sperimentali, come ad esempio Simone Cattaneo o Salvatore Toma, scomparsi relativamente da poco. In ambito musicale, cito Luigi Tenco, Giovanni Lindo Ferretti e Francesco Bianconi tra i miei autori preferiti.
Quando e com’è avvenuto il tuo avvicinamento al mondo della musica?
Quando avevo sette anni venni portato, un po’ a tradimento, in un palazzo del centro di Livorno dove mi venne chiesto di intonare le note che venivano suonate su un pianoforte. “Superata” questa scrematura iniziale, venni fatto sedere al piano e cominciai a prendere lezioni da un anziano maestro siciliano, Agostino Todaro, scomparso qualche anno fa. A lui devo il mio amore per la musica: non amavo fare esercizi o studiare il pianoforte, ma quell’uomo sapeva prendermi e lo considero una sorta di “secondo nonno”. Capii che la musica poteva commuovermi e far commuovere in una maniera molto più ineffabile delle parole. Da adolescente mi resi conto che potevo unire queste due passioni, scrivendo le mie canzoni e cantandole dietro ad un microfono: fondamentale fu il passaggio dal pianoforte alla chitarra, uno strumento che padroneggio ancora peggio ma che ha il pregio di essere molto istintivo. Fu a circa sedici anni che scrissi le mie prime canzoni, allora in inglese, perché ascoltavo principalmente musica rock anglosassone: ero un patito dei Pink Floyd.
Hai già fissato qualche data per promuovere l’Ep?
Per ora ho fatto tre “showcase” in acustico, uno a Milano, uno a Roma ed uno a Livorno, per portare un po’ il disco in giro. L’obiettivo è suonare molto ad anno nuovo, suonando nei piccoli club in tutta la penisola, con la speranza di rientrare nei festival estivi. Suonare dal vivo per me è davvero catartico, oltre a essere secondo me il modo migliore per scoprire nuovi artisti. Spero di avere quest’occasione il più possibile.
Quali sono i tuoi prossimi progetti musicali?
Sto già iniziando a lavorare al mio prossimo lavoro, che questa volta vorrei che fosse un vero e proprio album. Ho sempre ragionato per brani, ma non nego che mi sembra già di intravedere un tema a fare da filo rosso a quello che sta nascendo. Immagino un lavoro ancora più propriamente cantautoriale e centrato anche su ciò che c’è fuori di me, sulle storie di altri, come a formare un affresco. Spero di poterlo ultimare e pubblicare presto.
Grazie mille per il tuo tempo, vuoi aggiungere qualcosa per chiudere l’intervista?
Vorrei dire a tutte le persone che scrivono e suonano che leggono quest’intervista di non preoccuparsi e fare quello che davvero sentono loro, fregandosene dei risultati. Ho avuto in passato l’opportunità di far uscire dischi molto “pensati” per piacere, e ho affrontato questo con ansia e stress; viceversa, pubblicare il mio Ep è stato solo bello, mi sto prendendo positivamente quello che viene, che non è poco, anzi. Avere l’opportunità di andare anche solo a scalfire, ad accarezzare la quotidianità di qualcuno con una canzone è una cosa immensa: sono contento di averlo capito, anche se solo a 32 anni. Il segreto è banale, ma credo risieda nel credere solo e solamente al proprio gusto e alla propria visione della Bellezza.
MARCO PRITONI
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Foto: Alessandro Treves
Sono nato ad Imola nel 1979, la musica ha iniziato a far parte della mia vita da subito, grazie ai miei genitori che ascoltavano veramente di tutto. Appassionato anche di sport (da spettatore, non da praticante), suono il piano, il basso e la chitarra, scrivo report e recensioni e faccio interviste ad artisti italiani ed internazionali per Tuttorock per cui ho iniziato a collaborare grazie ad un incontro fortuito con Maurizio Donini durante un concerto.