Black Cafè – Intervista alla band
Chi sono i Black Cafè? Bella domanda. Faccio qualche ricerca, niente biografie da saggio breve, niente elenchi di premi vinti, niente di niente se non “Rnb/Nu soul Band da Genova”.
Semplice, diretto. Quanto basta per premere play e smetterla di annoiarsi.
Non la solita musica, non la ripetizione di qualcosa che già esiste in mille varianti sempre uguali a se stesse.
I Black Cafè premono un tasto impolverato – quello della Black Music – e lo riportano il suo dolce suono originario, quasi dimenticato, che si era cacciato in chissà quale meandro del mio cervello.
Il 18 dicembre scorso questa giovane band genovese (ma che sa egregiamente distinguersi per i suoi connotati oltreoceano), ha lanciato il suo primo disco intitolato “Wonderland”.
Dieci brani dal sound denso e caldo che, se da un lato ricordano un incontro tra il funky e lo smooth soul di un tempo, dall’altro ci riportano al presente grazie a dettagli di produzione che fanno capo ad una scena più contemporanea e che impreziosiscono molto il prodotto finale. Impeccabili e rare, inoltre, anche pronuncia inglese e voci, che rendono realmente internazionale il disco.
Lunga vita, dunque, alla ricerca minuziosa dei suoni, come si faceva una volta.
Ecco l’intervista ai Black Cafè a cura di Giovanna Vittoria Ghiglione.
Ciao ragazzi! Benvenuti sulle pagine di Tuttorock! Chi sono i Back Cafè? Raccontatemi un po’ di voi e del vostro percorso artistico.
“I Black Café sono composti da 3 membri: Kendamas, cantante e chitarrista, Bobby Mood che invece suona più strumenti (occupandosi così dell’arrangiamento) e Matiroc, cantante e corista. Tutti e tre iniziano ad avvicinarsi al mondo della musica fin dall’adolescenza: Bobby Mood e Kendamas suonano generi diversi nelle loro prime band per poi convergere nel primo progetto Lopex Experience. In seguito allo scioglimento della band, i due si rincontrano nel 2015 e iniziano a collaborare nuovamente fino a dare inizio al progetto Black Café. Parallelamente, Matiroc canta in diversi cori, sviluppando così la sua passione per il canto armonico.”
Da cosa nasce il nome “Black Cafè”? C’è un significato dietro questo nome?
“Il nome ha due significati: il primo non si può dire perché ridicolo e risale a un episodio avvenuto in saletta durante la discussione relativa al nome del gruppo. Il secondo, quello vero, si ispira alle due parole, black e café, dove Black rappresenta il simbolo della musica afroamericana, molto amata dai membri del gruppo, e Café sarebbe il luogo ideale dove rilassarsi, una seconda casa spesso simbolo degli artisti.”
Quali sono i vostri background musicali?
“Sia Kendamas che Bobby Mood provengono da ambienti musicali influenzati dalla musica afroamericana. All’inizio della propria formazione musicale Kendamas predilige il genere Pop, Soul e RnB, mentre Bobby si cimenta in uno stile dai ritmi e dalle sonorità più Funk, con un grande ascolto pregresso di musica Rock. Matilde canta nei cori sin da giovane età, accedendo a un repertorio classico e spesso ricercato che però viene affiancato all’ascolto di vari generi dal Pop al Rock e al Soul.”
Parlatemi del vostro stile: da cosa (e chi) prendete spunto per fare musica?
“Per quanto riguarda lo stile musicale, ci sono vari artisti che influenzano la band nel suo insieme e i loro membri singolarmente. La band si ispira molto alle sonorità della musica contemporanea afroamericana, nomi come Robert Glasper, Erykah Badu, Anderson Paak, Snarky Puppy, the Internet.
Fra le influenze di Kendamas spicca sicuramente la band Hiatus Kaiyote, capitanata dalla cantante Nai Palm a cui si è ispirato molto nello stile di scrittura dei testi e del songwriting. Altro artista amato da Kendamas è sicuramente Jacob Collier (una sua famosa intervista sulla teoria musicale lo spinse a intraprendere uno studio famelico della musica durante tutto il processo di creazione dell’album).
Altri artisti molto influenti per Kendamas sono i compositori di colonne sonore per videogames: al primo posto Nobuo Uematsu, compositore della famosa saga videoludica Final Fantasy, seguito da altri come Motoi Sakuraba, Yoko Shimomura, Shoji Meguro etc.
Anche per Bobby Mood tra le influenze più importanti ci sono gli Hiatus Kaiyote, ma anche D’Angelo, Roy Hargrove e in generale tutto il collettivo Soulquarians hanno contribuito alla definizione di groove che cerca sempre di raggiungere nella composizione di questo genere.
Per Matiroc invece sicuramente Stevie Wonder, Jorja Smith e SZA hanno contribuito all’orientamento vocale mentre per questioni armoniche di suo amore personale e di iniziazione all’armonia vocale i Beatles, gli Oasis e i Muse.”
Che cosa vi emoziona del fare musica?
Bobby Mood: “Della musica mi emoziona il fatto che la sua intangibilità ha spesso un effetto sensoriale anche più forte di altre cose ben più tangibili. Per chi è ricettivo a questo particolare medium ovviamente. Per altri possono essere un profumo o un sapore, c’è chi in passato addentando una brioches ha ripercorso al contrario la sua memoria fino a risvegliare un ricordo sopito. Il mio medium è sicuramente la musica. Quindi sì, in generale penso sia una lingua e saperla parlare è emozionante, ma credo che in fin dei conti quello che mi emoziona davvero della musica è questa memoria ancestrale che scolpisce nell’inconscio e che mi fornisce un database emozionale amplificato: quante volte sentendo una canzone della nostra infanzia viaggiamo nel flusso di ricordi, in pieno stile Proust, fino al periodo in cui la ascoltavamo per le prime volte? E può venirci il magone così come possiamo sorridere o piangere. Questo per me è come avere un superpotere e lo adoro.”
Kendamas: “Per me l’emozione della musica è costituito soprattutto dal suo potere “linguistico”, cioè la sua capacità di far comunicare le persone attraverso un linguaggio non verbale e strettamente primitivo, sia nel caso musicista-spettatore sia in quello di musicisti che suonano insieme per creare qualcosa di completamente nuovo. Con il tempo il mio amore per la musica si è evoluto: per me prima essa rappresentava qualcosa di inafferrabile, sconosciuto e magico, ma dopo aver iniziato a studiare approfonditamente la teoria da autodidatta ho scoperto che l’emozione che ne deriva è anche più poetica. Nella composizione siamo liberi di sperimentare fino al limite con ritmi assurdi come 33/8 o con modulazioni armoniche inaspettate e accattivanti, che però funzionano solo se fungono da veicolo in un contesto emotivo nello scambio di un messaggio.”
Matiroc: “La musica mi emoziona perché è libertà. È libertà di espressione nella sua forma più pura, nonostante siano necessari indagine, studio e dedizione.
L’armonizzazione vocale per me è quasi un momento catartico: è come riempire spazi vuoti, come dare forma ad un oggetto, senza però essere sempre sicura di ciò che accadrà. È quindi, ogni volta, una scoperta e una creazione bellissima.”
Cantate in inglese, una lingua che ben si adatta al vostro genere. Ma avete mai pensato di fare qualche pezzo in italiano?
Kendamas: “Cantare in inglese è stata una necessità, piuttosto che una scelta. Oltre ad amare la lingua inglese per come essa si presti alla musicalità sotto molti punti di vista (prosodia, brevità delle parole e la loro grande assonanza al livello complessivo di lessico), il vero motivo per cui ho scritto in inglese è perché i miei gusti musicali sono sempre stati indirizzati al mondo della musica Black e nella ricerca di perfezionare la conoscenza di quell’universo, tralasciando forse stupidamente molto del patrimonio musicale italiano.
L’idea di scrivere in italiano però è qualcosa che ho sempre tenuto in considerazione: i primi brani da me scritti in adolescenza erano tutti in italiano, ma in quel periodo leggevo moltissima prosa e poesia ed ero sicuramente influenzato da questo fattore. Cantare in italiano sarebbe sicuramente un modo più efficace per comunicare con una fetta di pubblico molto più ampia e probabilmente mi cimenterò anche in questa esperienza, tenendo conto che amo molto uno stile in cui la parola è asservita alla musica piuttosto che a una narrazione: la parola per me deve suonare bene nel suo contesto musicale (con una nota, in un ritmo specifico) e al contempo deve suscitare un’immagine nell’ascoltatore, senza necessariamente raccontare una storia o descrivere un’azione “dinamica”.
Il 18 dicembre scorso è uscito il vostro disco “Wonderland”: c’è un filo conduttore dell’intero disco? Che cosa vuole raccontare?
“Il filo conduttore di Wonderland è sicuramente la positività. L’album racconta di una rinascita, l’inizio di un nuovo ciclo improntato a un approccio più tollerante verso la vita. Nei testi viene enfatizzato l’amore per la natura con l’uso di parole legate per esempio agli elementi (acqua, fuoco, aria, terra) o a esponenti della flora e della fauna (nel pezzo Stars and Doves mi sono addirittura prestato a fare i versi di diversi animali in una sezione della canzone), si cerca di enfatizzare l’accettazione della contraddizione della convivenza del bene e del male nel nostro cuore, della sofferenza che diventa insegnamento e porta al miglioramento, all’amore che è finito ma che dopo averci straziato ci ha insegnato ad amare ancora di più noi stessi e quello che amiamo.
Che cosa pensate del panorama musicale italiano? C’è spazio per un genere come il Nu-Soul? O forse l’Italia non è ancora pronta?
“Purtroppo il panorama musicale italiano “ufficiale” al momento è spaccato in due filoni principali: quello del rap, dove si salvano alcuni eccezionali esponenti a fronte di una massa di musica che risulta distorsione di una matrice americana e tutta uguale a se stessa, e quello della musica sanremo-like, una commistione di melodico italiano (vocalist accompagnato da pianoforte, violini, orchestra) e musica indie (band in stile più canonico con batteria, chitarra, basso, synth).
Quello che manca alla musica italiana è il desiderio di aprire il ventaglio di ascoltatori a una marea di musica che viene fatta anche nella stessa italia ma che viene soffocata dalla pubblicità selettiva di alcuni limitati generi di musica. Gli italiani sarebbero pronti alla musica Nu-Soul, ma non penso che lo sia l’Italia.
È sempre bello però ritrovarsi con persone che amano sentire un brano decrepito degli Ink Spots o ridere di quella vecchia canzone di Dinah Washinton, delle quindicesime aumentate di Jacob Collier o di quanto sia funk la soundtrack del nuovo Mario Kart.”
Anche le vostre copertine sono molto particolari: qual è il concept dietro queste illustrazioni?
“Il concept delle illustrazioni dell’album si rifà all’immaginario della parola wonderland: ovviamente è impossibile non pensare al libro di Lewis Carroll, dove troviamo conigli vestiti di tutto punto che corrono in ritardo o bruchi che fumano narghilé e gatti fluttuanti. La scelta degli animali si rifà anche all’enorme rispetto che proviamo per loro sia al livello ingegneristico del loro organismo sia per quanto siano fondamentali nel loro carattere teatrale di personaggi e quindi nella scelta dei valori che attribuiamo loro: l’aquila è maestosa, perché non renderla “tamarra”? Un camaleonte ha crisi di identità e non si riconosce allo specchio. Nella copertina si vede un albero crescere ed evadere dal teschio di un felino: la natura vince sempre. E come diceva Lavoisier nulla si crea o si distrugge, tutto si trasforma.”
Quali sono i vostri progetti futuri?
“I progetti futuri del gruppo sono sicuramente suonare e portare su più palchi possibili i brani di Wonderland. Parallelamente il desiderio di comporre è – per fortuna – difficile da frenare e sicuramente a breve il motore dei Black Café si riaccenderà per lavorare a un secondo album ancora più limato e contemporaneamente accessibile ma raffinato.”
Intervista a cura di Giovanna Ghiglione
Link utili:
Studente di Ingegneria delle Telecomunicazioni presso l'università La Sapienza di Roma, da sempre animato dalla passione per la musica. Nel 2012 entra nel mondo dell'informazione musicale dove lavora alla nascita e all'affermazione del portale Warning Rock. Dal 2016 entra a far parte di TuttoRock del quale ne è attualmente il Direttore Editoriale, con all'attivo innumerevoli articoli tra recensioni, live-report, interviste e varie rubriche. Nel 2018, insieme al socio e amico Cristian Orlandi, crea Undone Project, rassegna di musica sperimentale che rappresenta in pieno la sua concezione artistica. Una musica libera, senza barriere né etichette, infiammata dall'amore di chi la crea e dalle emozioni di chi la ascolta.