ANDREA VAN CLEEF – Intervista al cantautore lombardo
In vista dell’uscita di “Horse Latitudes”, quarto lavoro solista che sarà pubblicato in formato vinile, CD e digitale il 5 aprile 2024 per l’etichetta italiana Rivertale Productions, ho intervistato il songwriter Andrea Van Cleef.
Nato ai piedi delle montagne italiane della Vallecamonica, Andrea Van Cleef si trasferisce, dopo gli studi universitari in lingue, a Brescia, dove ancora vive e produce la sua musica. Nonostante in questi anni abbia calcato diversi palchi europei e nazionali, dice che è nei territori bresciani la sua “casa”. Chitarrista e appassionato di strumenti a corde in generale, voce dal timbro intenso e riconoscibile, Andrea Van Cleef compone, canta e suona i suoi pezzi, da qualche tempo producendo anche per altri artisti.
Nel 2012 il primo album solista, “Sundog” (Greatmachinepistola/Audioglobe) è la rivelazione definitiva della sua abilità espressiva e compositiva a respiro internazionale. Canta e scrive esclusivamente in inglese, ma con l’approccio creativo e visionario italiano, nonché il pragmatismo, anche sonoro, delle sue Valli. Ed è questo stile unico e personale di “Sundog”, autoprodotto, che ha raccolto interesse tra gli addetti ai lavori e i fan del genere, tanto da diventare un album mini-culto ed essersi guadagnato diverse ristampe, in seguito alla collaborazione con l’etichetta Rivertale Productions. La parte più rilevante e imprescindibile dell’attività musicale di Van Cleef è senz’altro quella live. Non solo “Sundog” ha fatto il giro tra Italia, Svizzera e Germania, ma gli show live si sono intensificati a ritmo molto sostenuto, circa 90-100 concerti annui, con le successive pubblicazioni – gli album “Tropic Of Nowhere” (2018, Rivertale Productions) e ”Safari Station” (co-firmato con il blues folk Diego Deadman Potron, 2021, Rivertale productions/ Timezone) e l’EP “135” (2020, Rivertale Productions). Diversi i festival internazionali di rock stoner-doom a cui ha preso parte – tra gli album con gli Humulus “RHINO” (2017, Kozmik Artifactz) e “The Deep” (2020, Kozmik Artifactz) – e diverse le aperture ai concerti blues-rock, tra cui ricordiamo Ben Harper e l’apertura solista al sold out italiano di The White Buffalo all’Alcatraz di Milano. Da solista, in duo acustico, fino a formazioni più strutturate e complesse, gli show di Andrea Van Cleef sanno coinvolgere e catturare l’attenzione del pubblico.
Ciao Andrea e benvenuto su Tuttorock, parliamo subito di questo tuo quarto album solista, “Horse Latitudes”, un disco che vira verso territori southern gothic, una scelta definitiva o comunque lasci aperti altri orizzonti musicali per il futuro?
Ciao e grazie per l’ospitalità. Sì, in questo disco, o almeno per buona parte di questo disco, mi sposto su quelle sonorità. Penso sia l’approdo definitivo per le mie cose soliste, anche se non si può mai dire, ascolto tanta musica diversa e sono affascinato da tante cose, tanti suoni. Per il futuro è possibile che prenda ancora questa strada, anche se parallelamente continuerò anche con la mia produzione nello “stoner rock” o “heavy psych”, genere che ho sempre suonato e che mi ha definito come musicista.
Ho apprezzato ogni singolo brano e, al termine dell’ennesimo ascolto, mi sono detto, “non può non fare parte di qualche colonna sonora”, tu hai avuto la stessa impressione riascoltandoti?
É una cosa che mi è stata detta anche in passato, e devo dire che mi fa sempre piacere sentirmelo dire. Ogni volta che scrivo una canzone ho sempre in mente un immaginario visivo di riferimento, nella mia testa è sempre tutto “cinematografico”, in qualche modo. Ho sempre trovato interessante il rapporto tra immagini e suono, notando ad esempio come in un viaggio in auto il paesaggio circostante possa assumere caratteristiche diverse a seconda della musica che stai ascoltando in autoradio. Forse stavolta sono riuscito a rendere più evidente questa cosa anche per gli ascoltatori, oltre che per me.
“A Horse Named Cain” è accompagnata da un bellissimo video, è nato da una tua idea o ti sei affidato totalmente al regista Angelo Maffioletti?
Io, come sempre, do qualche vaga idea di riferimento alle persone che lavorano con me, poi mi piace vedere emergere le loro sensibilità e il loro modo di fare le cose. In questo caso i miei riferimenti sono stati relativi alla tipologia di bianco e nero e a qualche film noir, il resto è stato definito prima in pre produzione da Giada Destro e Sara Capoferri (La Direzione Creativa), poi concretizzato da Angelo Maffioletti e dal DOP Marco Laini. Il merito della bellezza del video è tutto di queste persone (cui aggiungerei la performer Stella), che hanno avuto anche il merito di farmi sentire molto a mio agio durante le riprese.
Nella copertina, sotto al tuo nome, appare la scritta “& The Black Jack Conspiracy”, ciò significa che, anche se questo è un album solista, volevi comunque omaggiare i musicisti che hanno suonato nei tuoi brani?
Sì. È probabilmente un disco solista, ma è un disco in cui non sono mai stato solo. É stato il disco per il quale ho lavorato con il maggior numero di persone; solitamente ero coinvolto, sia nelle situazioni soliste che in quelle con band, con un numero molto più ristretto. Qui ci sono una decina di musicisti coinvolti, due tecnici del suono, un sacco di persone che mi hanno fatto compagnia e aiutato in maniera inestimabile. La loro voce è dentro questo disco e mi accompagna sempre.
A proposito di ambiente cinematografico, com’è nata la collaborazione con Rick Del Castillo, che tra l’altro ha lavorato con i registi hollywoodiani Robert Rodriguez e Quentin Tarantino?
Rick è un collaboratore fisso del mio produttore Paolo Pagetti di Rivertale. Hanno già collaborato insieme, e la sua crew era già in alcuni brani di “Tropic Of Nowhere”, il mio disco del 2018. Rick ha un home studio nei dintorni di Austin, con attrezzature fantastiche, cimeli (ad esempio l’amplificatore usato nel 1968 al Fillmore West da Wayne Ceballos degli Aum, zio di Rick) e un’atmosfera davvero rilassata. Rick e sua moglie Faith sono persone straordinarie e si sono presi cura di me durante quei giorni texani.
Cosa ti porti dentro dell’esperienza in Texas?
Innanzitutto la consapevolezza di poter cantare, suonare e proporre un genere così “americano” anche in quegli ambienti. I live che ho fatto in quei giorni sono sempre stati bene accolti, da questo punto di vista ho trovato un’inclusività e un supporto inaspettati. Alla mia partenza avevo qualche dubbio, in fondo non ero mai stato negli USA a suonare la mia musica, l’avevo fatto in giro per l’Europa, ma lì ero nel cuore della faccenda, ero dove tutto è nato, in fondo, e c’era un po’ di timore. Il dubbio era che la mia credibilità potesse essere messa in discussione. Non è stato così, e la sicurezza che è scaturita da questa esperienza mi ha sicuramente cambiato. Un’altra cosa importantissima è stata l’attenzione e il rispetto mostrati per i miei brani, anche dai musicisti che ci hanno lavorato. Il songwriting è un’arte ingannevole, e ricevere feedback positivi da chi macina quel genere tutti i giorni per lavoro e cultura è una conferma necessaria.
Hai viaggiato ovunque per poi ritornare sempre a Brescia, cosa rappresenta per te quella città?
Brescia è definitivamente casa mia, sono nato poco distante da lì, girare tanto è bellissimo, ma ti permette anche di vedere con un po’ più di distacco la vita che vivi dove hai casa, senza perdersi nelle piccolezze della quotidiana convivenza in un determinato contesto sociale. Penso che queste cittadine di medie dimensioni siano la condizione ideale per vivere in un luogo che ha cose da offrirti, ma che rimane vivibilissimo, nonostante le insidie della moderna economia. In più Brescia ha acquisito negli ultimi anni una dimensione più europea, mi ricorda molto alcune cittadine dell’Europa centrale, luoghi belli in cui vivere e sentirsi parte di una comunità.
Hai già programmato qualche data live?
Le prime date saranno nel mese di aprile: il 5, insieme all’uscita del disco, ci sarà il release party al leggendario Bloom di Mezzago, un locale del cuore. L’11 aprile sarò a Brescia, al teatro Der Mast, mentre il 20 Aprile sarò all’ARCI Chinaski di Sermide in provincia di Mantova, un locale davvero sensato e interessante nella sua programmazione. Il 21 sarò invece sui Navigli di Milano per uno show solista insieme alla cantautrice americana Jolie Holland. Da Maggio in poi sono in fase di programmazione date in Europa e Italia.
Con quale formazione ti presenterai sul palco?
Ogni volta che sarà possibile farlo, cercherò di presentare i brani di questo disco (in un set che includerà anche altri brani del mio passato musicale e due cover), con la formazione più completa possibile, ovvero un sestetto di amici e musicisti straordinari: Pietro Gozzini al contrabbasso, Simone Helgast alle percussioni, Simone Grazioli a chitarra, banjo e mandolino, Giulia Mabellini al violino e Alex Stangoni alla chitarra. Oltre a me, a voce e chitarre di vario tipo.
Grazie mille per il tuo tempo, vuoi aggiungere qualcosa per chiudere l’intervista?
Ringrazio voi per l’interesse, invito tutti ad ascoltare i brani di “Horse Latitudes”, che uscirà anche in CD e vinile, in due edizioni molto curate graficamente. Se vi piace il disco fatevi sentire e scrivetemi, rispondo sempre.
MARCO PRITONI
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Sono nato ad Imola nel 1979, la musica ha iniziato a far parte della mia vita da subito, grazie ai miei genitori che ascoltavano veramente di tutto. Appassionato anche di sport (da spettatore, non da praticante), suono il piano, il basso e la chitarra, scrivo report e recensioni e faccio interviste ad artisti italiani ed internazionali per Tuttorock per cui ho iniziato a collaborare grazie ad un incontro fortuito con Maurizio Donini durante un concerto.