ALESSANDRO GRAZIAN – Intervista al cantautore
by tuttorock
11 Giugno 2015
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Alessandro Grazian, raffinato cantautore padovano attivo ormai da ben 10 anni sulla scena musicale, ha pubblicato nel gennaio di quest’anno il suo quarto album solista “L’età più forte”, un lavoro interessantissimo il cui ascolto lascia un buon numero di spunti di riflessione.
Questa è l’intervista che Alessandro, con grande disponibilità e gentilezza, ci ha rilasciato in occasione del suo live a Roma presso Le Mura
Ciao Alessandro, innanzitutto grazie per il tempo che ci stai dedicando. Dunque, il nome del tuo ultimo lavoro, “L’età più forte”, è ispirato al titolo del quarto volume autobiografico di Simone de Beauvoir “L’età forte”. Lei ha descritto questa parte della sua autobiografia come una “scoperta più profonda della coscienza di sé” acquisita anche tramite esperienze traumatiche quali la Seconda Guerra Mondiale. Tu consideri questo album come, appunto, una scoperta più profonda della tua coscienza?
In qualche modo si. Ho scelto il titolo per due ragioni: questo libro mi è capitato fra le mani un po’ per caso, prima che iniziassi a lavorare a questo album, e mi ha colpito molto questo concetto di età e di forza ovvero due elementi che da un po’ mi frullavano in testa ed intorno ai quali iniziava a ruotare la scrittura del disco. Ho pensato subito che l’idea dell’età e quella della forza potevano incarnare quello che stavo cercando io. Per quanto riguarda il carattere autobiografico del libro, anche per me questo disco è un momento in cui io tiro un po’ le somme di questi primi dieci anni di carriera, facendo i conti con tutta una serie di cose che avevo vissuto acquisendo una maggiore consapevolezza di questo percorso guardandoti indietro nella maniera più onesta possibile. Penso che non si sarebbe potuto chiamare altrimenti: è l’età di un percorso e anche la forza, l’impegno profuso per arrivare ad un risultato che prevede certe scelte a discapito delle altre.
I rimandi alla letteratura sono ricorrenti nella tua produzione . In “A San Pietroburgo” , brano contenuto in “Indossai”, hai inserito un recitativo dell’introduzione de “La dama di picche” di Aleksandr Puškin. In quali altri modi la letteratura ti ha influenzato, e quali sono i filoni e le opere di importanza cardine per te?
In generale ho sempre avuto una fascinazione per altri linguaggi oltre a quello musicale un po’ a causa della mia formazione venendo dal mondo dell’arte figurativa. Per un periodo ho frequentato più gente che aveva a che fare con la scrittura, con il cinema e con l’arte in generale piuttosto che persone operanti in ambito musicale. Questa inclinazione quindi mi ha sempre nutrito: c’è ispirazione che traggo dalla musica ed ispirazione che traggo dalla letteratura. Lavorare in biblioteca per esempio è stata un’esperienza importante per me, in quanto è stato il periodo della mia vita nel quale ho letto di più in assoluto. Per quanto riguarda “A San Pietroburgo” in quel periodo ero molto appassionato di letteratura russa, e Puškin è considerato il primo vero scrittore russo dal quale poi si sviluppa una scrittura non derivativa ma autoctona. Allo stesso modo, “La Dama di picche” è ritenuta la “pietra” sulla quale poi si è fondata tutta la letteratura russa. Non è una scelta dotta, è stata semplicemente specchio di una grande fascinazione. Guardando all’Italia poi ci sono vari scrittori che apprezzo moltissimo, come Dino Buzzati ad esempio il quale è intrecciato a doppio filo col mondo dell’illustrazione in quanto lui stesso disegnava. Mi sono sempre piaciuti questi personaggi “di confine” che non ricoprono semplicemente un ruolo e trovano più canali per esprimere cosa hanno da dire.
Mi piacerebbe adesso parlare più nello specifico dei brani contenuti ne “L’età più forte”. Ad esempio, nell’incipit de “La risposta” parli di “solitudine delle persone per bene”. Ecco, questa solitudine delle persone per bene in cosa differisce dalla solitudine delle persone che per bene non sono?
Questa è una bella domanda. Beh, io penso che le persone che non sono per bene abbiano un altro tipo di solitudine, penso che riescano a fare più “squadra”. Quella delle persone per bene è causata anche da determinati ideali che non le rappresentano. Questa canzone voleva raccontare una certa disillusione: l’idea è partita da Bob Dylan il quale diceva che “la risposta sta soffiando nel vento” , verso leggendario che suggerisce una fiducia nell’avvenire, nelle persone e nella capacità di esse di investire in determinati ideali. Io invece penso che, ad essere sinceri, le cose non sono andate esattamente così e quindi ho pensato che le persone per bene sono sole anche nei confronti di chi porta determinate bandiere che in realtà molto spesso sono solo di interesse e di posa. Mi è capitata nella mie esperienza, frequentazioni e quant’altro di intercettare questo, l’idealismo dunque lascia il posto ad una visione più concreta.
“Noi noi noi” è un brano sull’incomunicabilità. Al di là delle mere diversità di carattere e di inclinazioni che possono comunque essere conciliate, quali sono secondo te gli ostacoli ed i muri che impediscono l’effettiva comprensione l’uno dell’altro?
Beh ce ne sono tanti. Io in questa canzone parlo anche del fatto di essere un po’ troppo attaccati alla propria identità , e questo è un ostacolo ovvero il non riuscire a scavalcare anche il proprio ego per difendere determinate idee o scelte di vita. Allora forse si inizia a pensare che è giusto così, che forse bisognerebbe avere vicino qualcuno perfettamente in linea con quello che tu stai vivendo, con quello in cui credi oppure accetti questa incomprensione e fondi su di essa il rapporto. Ho messo questa canzone alla fine del disco perché mi sembrava che simboleggiasse il dispiacere e l’accettare che alla fine per quanto tu possa andare a fondo in una cosa rimani sempre un po’ lontano dal traguardo, anche nella volontà di costruire un rapporto con una persona. Questa è la mia vicenda personale e ho deciso di raccontarla così. Però questa persona può essere anche una cosa in cui credi: sei innamorato di qualcosa che però non ti corrisponde.
“Corso San Gottardo” è un po’ la descrizione dello spaesamento provato da te nei primi tempi dopo il trasferimento a Milano. Il cambio di città ha influenzato la tua produzione artistica? Se sì, in che modo?
Ha influenzato sicuramente anche se l’altra sera che ero a cena con Enrico Gabrielli col quale collaboro da 10 anni e gli ho detto “Sono cinque anni che sto a Milano, ma lavoro con te da molto prima di venire qua”. Quindi forse l’esperienza milanese non ha stravolto le colonne fondanti del mio percorso però sicuramente mi ha dato una consapevolezza maggiore, che era ciò che cercavo, rispetto anche alla realtà che mi circonda. Penso che gli ultimi dischi fatti, quelli del “periodo milanese”, sono sicuramente caratterizzati quindi da un contatto più forte con la realtà. Nei primi album ero molto distaccato, ed era voluto da me in quanto inseguivo proprio questo modo di far musica; in questi ultimi lavori invece la realtà è entrata in modo prepotente. Era una cosa che volevo fare e sicuramente andare a Milano mi ha aiutato ad incanalare questo desiderio, in quanto sono uscito dalla dimensione “bucolica” di Padova e le grandi città avevano un sapore un po’ più esotico. Quando invece inizi a viverci entri anche in un circuito e metti a fuoco tutta una serie di cose, sia belle sia brutte. Ringrazio però di aver avuto la possibilità di vederne anche i lati negativi perché penso che per essere persone più complete valga la pena di non spostare sempre lo sguardo. Ovviamente Milano ha influito anche per tutta una serie di collaborazioni e per la nascita di un’estetica meno distante, sono rientrate nella mia musica infatti anche delle formule che appartenevano ad un periodo che avevo escluso dalla mia esperienza solista come elementi new wave, dream pop e rock che nei primi dischi erano assenti. Non certo perché non mi piacessero, ma perché pensavo inizialmente che l’esperienza solista potesse farne a meno. È comunque una parte di me che ho pensato di svelare.
A tal proposito, nei tuoi primi lavori il linguaggio musicale è decisamente più ermetico. Ne “L’età più forte” le immagini trasmesse sono più chiare, dall’impatto più immediato. È un’esigenza sulla quale hai riflettuto o è stata una scelta naturale?
È stato un processo naturale sui cui però ho anche riflettuto, ma non è stata una scelta fatta a tavolino. Ho sentito proprio il bisogno di farlo, forse perché ho anche avuto modo di sviscerare determinati mondi anche come ascoltatore. Volevo comunicare di più, magari mantenendo sempre qualche linea d’ombra, ma non mi sono imposto nulla. È venuto tutto da sé, ho accettato il rischio di tentare vendendo anche da un’esperienza decisamente più crepuscolare non avevo idea che effetto avrebbe fatto l’essere più esplicito. Guardandomi dall’esterno sono soddisfatto però, mi sembra di aver sviluppato un meccanismo di empatia diverso e che mi piace.
Parliamo di “Satana”, brano che parla del disobbedire ai propri valori a scopo di sopravvivenza ed utilitaristico. Di vendere, appunto, l’anima a Satana. Tu pensi di averlo mai fatto?
No, ma forse mi sarebbe piaciuto. Lo dico senza clamore, a me spaventa un po’ questa scarsa disponibilità che ho al compromesso . Tuttavia, non farei mai quella che io chiamo la “biografia per sottrazione”: io non ho mai fatto questo, non ho mai suonato con quest’artista, non ho mai accettato quella cosa e via dicendo. Nel pezzo volevo raccontare Satana come una sorta di grande seduttore che ti pone davanti ad una scelta. Fino ad adesso forse però Satana non è stato abbastanza seducente per me. Senza fare buonismo faccio chiaramente più il tifo per chi non vende l’anima però ho cercato di raccontare ciò in maniera distaccata, senza voler distinguere il giusto dallo sbagliato in maniera retorica. Dico ad un certo punto infatti “puoi darmi una mano o spararmi sul viso”, quasi come se fosse la stessa cosa. In fin dei conti il disco parla proprio del concetto di scelta, dello stare da una parte o dall’altra e certamente stare da una parte è più comodo che stare dall’altra, questo è un dato di fatto. Bisogna comunque valutare tanti aspetti: ci sono vittorie sulla distanza breve e altre sulla distanza più lunga. Vedremo fra 10 anni com’è andata!
Ultima domanda, un po’ più leggera delle precedenti e riferita al pezzo “Se fossi una band mi scioglierei”. Se potessi scegliere, quale band saresti?
Io sono cresciuto non solo ascoltando i cantautori ma anche varie band. All’inizio dicevo ironicamente di essere diventato cantautore non per vocazione ma per disperazione, e la disperazione era quella di non essere riuscito a creare una band. Sono molte i gruppi che ho amato, probabilmente sceglierei i Beatles perché hanno convogliato dentro di loro tutto: il talento, il fenomeno di costume, i picchi, le crisi e soprattutto hanno avuto la dignità di non essersi mai riformati, di cercare di raccogliere qualcosa di un epoca che fu come invece fanno i loro “ex-nemici”, i Rolling Stones. Ecco, invece se fossi una band per poi poterla sciogliere sarei proprio i Rolling Stones!
ELIANA SCALA
http://www.alessandrograzian.it/
https://www.facebook.com/pages/Alessandro-Grazian/59512921717
http://www.tuttorock.net/concerti/alessandro-grazian-full-band-live-le-mura-music-bar-roma-09-06-2015
lavorarestancalabel@gmail.com
Questa è l’intervista che Alessandro, con grande disponibilità e gentilezza, ci ha rilasciato in occasione del suo live a Roma presso Le Mura
Ciao Alessandro, innanzitutto grazie per il tempo che ci stai dedicando. Dunque, il nome del tuo ultimo lavoro, “L’età più forte”, è ispirato al titolo del quarto volume autobiografico di Simone de Beauvoir “L’età forte”. Lei ha descritto questa parte della sua autobiografia come una “scoperta più profonda della coscienza di sé” acquisita anche tramite esperienze traumatiche quali la Seconda Guerra Mondiale. Tu consideri questo album come, appunto, una scoperta più profonda della tua coscienza?
In qualche modo si. Ho scelto il titolo per due ragioni: questo libro mi è capitato fra le mani un po’ per caso, prima che iniziassi a lavorare a questo album, e mi ha colpito molto questo concetto di età e di forza ovvero due elementi che da un po’ mi frullavano in testa ed intorno ai quali iniziava a ruotare la scrittura del disco. Ho pensato subito che l’idea dell’età e quella della forza potevano incarnare quello che stavo cercando io. Per quanto riguarda il carattere autobiografico del libro, anche per me questo disco è un momento in cui io tiro un po’ le somme di questi primi dieci anni di carriera, facendo i conti con tutta una serie di cose che avevo vissuto acquisendo una maggiore consapevolezza di questo percorso guardandoti indietro nella maniera più onesta possibile. Penso che non si sarebbe potuto chiamare altrimenti: è l’età di un percorso e anche la forza, l’impegno profuso per arrivare ad un risultato che prevede certe scelte a discapito delle altre.
I rimandi alla letteratura sono ricorrenti nella tua produzione . In “A San Pietroburgo” , brano contenuto in “Indossai”, hai inserito un recitativo dell’introduzione de “La dama di picche” di Aleksandr Puškin. In quali altri modi la letteratura ti ha influenzato, e quali sono i filoni e le opere di importanza cardine per te?
In generale ho sempre avuto una fascinazione per altri linguaggi oltre a quello musicale un po’ a causa della mia formazione venendo dal mondo dell’arte figurativa. Per un periodo ho frequentato più gente che aveva a che fare con la scrittura, con il cinema e con l’arte in generale piuttosto che persone operanti in ambito musicale. Questa inclinazione quindi mi ha sempre nutrito: c’è ispirazione che traggo dalla musica ed ispirazione che traggo dalla letteratura. Lavorare in biblioteca per esempio è stata un’esperienza importante per me, in quanto è stato il periodo della mia vita nel quale ho letto di più in assoluto. Per quanto riguarda “A San Pietroburgo” in quel periodo ero molto appassionato di letteratura russa, e Puškin è considerato il primo vero scrittore russo dal quale poi si sviluppa una scrittura non derivativa ma autoctona. Allo stesso modo, “La Dama di picche” è ritenuta la “pietra” sulla quale poi si è fondata tutta la letteratura russa. Non è una scelta dotta, è stata semplicemente specchio di una grande fascinazione. Guardando all’Italia poi ci sono vari scrittori che apprezzo moltissimo, come Dino Buzzati ad esempio il quale è intrecciato a doppio filo col mondo dell’illustrazione in quanto lui stesso disegnava. Mi sono sempre piaciuti questi personaggi “di confine” che non ricoprono semplicemente un ruolo e trovano più canali per esprimere cosa hanno da dire.
Mi piacerebbe adesso parlare più nello specifico dei brani contenuti ne “L’età più forte”. Ad esempio, nell’incipit de “La risposta” parli di “solitudine delle persone per bene”. Ecco, questa solitudine delle persone per bene in cosa differisce dalla solitudine delle persone che per bene non sono?
Questa è una bella domanda. Beh, io penso che le persone che non sono per bene abbiano un altro tipo di solitudine, penso che riescano a fare più “squadra”. Quella delle persone per bene è causata anche da determinati ideali che non le rappresentano. Questa canzone voleva raccontare una certa disillusione: l’idea è partita da Bob Dylan il quale diceva che “la risposta sta soffiando nel vento” , verso leggendario che suggerisce una fiducia nell’avvenire, nelle persone e nella capacità di esse di investire in determinati ideali. Io invece penso che, ad essere sinceri, le cose non sono andate esattamente così e quindi ho pensato che le persone per bene sono sole anche nei confronti di chi porta determinate bandiere che in realtà molto spesso sono solo di interesse e di posa. Mi è capitata nella mie esperienza, frequentazioni e quant’altro di intercettare questo, l’idealismo dunque lascia il posto ad una visione più concreta.
“Noi noi noi” è un brano sull’incomunicabilità. Al di là delle mere diversità di carattere e di inclinazioni che possono comunque essere conciliate, quali sono secondo te gli ostacoli ed i muri che impediscono l’effettiva comprensione l’uno dell’altro?
Beh ce ne sono tanti. Io in questa canzone parlo anche del fatto di essere un po’ troppo attaccati alla propria identità , e questo è un ostacolo ovvero il non riuscire a scavalcare anche il proprio ego per difendere determinate idee o scelte di vita. Allora forse si inizia a pensare che è giusto così, che forse bisognerebbe avere vicino qualcuno perfettamente in linea con quello che tu stai vivendo, con quello in cui credi oppure accetti questa incomprensione e fondi su di essa il rapporto. Ho messo questa canzone alla fine del disco perché mi sembrava che simboleggiasse il dispiacere e l’accettare che alla fine per quanto tu possa andare a fondo in una cosa rimani sempre un po’ lontano dal traguardo, anche nella volontà di costruire un rapporto con una persona. Questa è la mia vicenda personale e ho deciso di raccontarla così. Però questa persona può essere anche una cosa in cui credi: sei innamorato di qualcosa che però non ti corrisponde.
“Corso San Gottardo” è un po’ la descrizione dello spaesamento provato da te nei primi tempi dopo il trasferimento a Milano. Il cambio di città ha influenzato la tua produzione artistica? Se sì, in che modo?
Ha influenzato sicuramente anche se l’altra sera che ero a cena con Enrico Gabrielli col quale collaboro da 10 anni e gli ho detto “Sono cinque anni che sto a Milano, ma lavoro con te da molto prima di venire qua”. Quindi forse l’esperienza milanese non ha stravolto le colonne fondanti del mio percorso però sicuramente mi ha dato una consapevolezza maggiore, che era ciò che cercavo, rispetto anche alla realtà che mi circonda. Penso che gli ultimi dischi fatti, quelli del “periodo milanese”, sono sicuramente caratterizzati quindi da un contatto più forte con la realtà. Nei primi album ero molto distaccato, ed era voluto da me in quanto inseguivo proprio questo modo di far musica; in questi ultimi lavori invece la realtà è entrata in modo prepotente. Era una cosa che volevo fare e sicuramente andare a Milano mi ha aiutato ad incanalare questo desiderio, in quanto sono uscito dalla dimensione “bucolica” di Padova e le grandi città avevano un sapore un po’ più esotico. Quando invece inizi a viverci entri anche in un circuito e metti a fuoco tutta una serie di cose, sia belle sia brutte. Ringrazio però di aver avuto la possibilità di vederne anche i lati negativi perché penso che per essere persone più complete valga la pena di non spostare sempre lo sguardo. Ovviamente Milano ha influito anche per tutta una serie di collaborazioni e per la nascita di un’estetica meno distante, sono rientrate nella mia musica infatti anche delle formule che appartenevano ad un periodo che avevo escluso dalla mia esperienza solista come elementi new wave, dream pop e rock che nei primi dischi erano assenti. Non certo perché non mi piacessero, ma perché pensavo inizialmente che l’esperienza solista potesse farne a meno. È comunque una parte di me che ho pensato di svelare.
A tal proposito, nei tuoi primi lavori il linguaggio musicale è decisamente più ermetico. Ne “L’età più forte” le immagini trasmesse sono più chiare, dall’impatto più immediato. È un’esigenza sulla quale hai riflettuto o è stata una scelta naturale?
È stato un processo naturale sui cui però ho anche riflettuto, ma non è stata una scelta fatta a tavolino. Ho sentito proprio il bisogno di farlo, forse perché ho anche avuto modo di sviscerare determinati mondi anche come ascoltatore. Volevo comunicare di più, magari mantenendo sempre qualche linea d’ombra, ma non mi sono imposto nulla. È venuto tutto da sé, ho accettato il rischio di tentare vendendo anche da un’esperienza decisamente più crepuscolare non avevo idea che effetto avrebbe fatto l’essere più esplicito. Guardandomi dall’esterno sono soddisfatto però, mi sembra di aver sviluppato un meccanismo di empatia diverso e che mi piace.
Parliamo di “Satana”, brano che parla del disobbedire ai propri valori a scopo di sopravvivenza ed utilitaristico. Di vendere, appunto, l’anima a Satana. Tu pensi di averlo mai fatto?
No, ma forse mi sarebbe piaciuto. Lo dico senza clamore, a me spaventa un po’ questa scarsa disponibilità che ho al compromesso . Tuttavia, non farei mai quella che io chiamo la “biografia per sottrazione”: io non ho mai fatto questo, non ho mai suonato con quest’artista, non ho mai accettato quella cosa e via dicendo. Nel pezzo volevo raccontare Satana come una sorta di grande seduttore che ti pone davanti ad una scelta. Fino ad adesso forse però Satana non è stato abbastanza seducente per me. Senza fare buonismo faccio chiaramente più il tifo per chi non vende l’anima però ho cercato di raccontare ciò in maniera distaccata, senza voler distinguere il giusto dallo sbagliato in maniera retorica. Dico ad un certo punto infatti “puoi darmi una mano o spararmi sul viso”, quasi come se fosse la stessa cosa. In fin dei conti il disco parla proprio del concetto di scelta, dello stare da una parte o dall’altra e certamente stare da una parte è più comodo che stare dall’altra, questo è un dato di fatto. Bisogna comunque valutare tanti aspetti: ci sono vittorie sulla distanza breve e altre sulla distanza più lunga. Vedremo fra 10 anni com’è andata!
Ultima domanda, un po’ più leggera delle precedenti e riferita al pezzo “Se fossi una band mi scioglierei”. Se potessi scegliere, quale band saresti?
Io sono cresciuto non solo ascoltando i cantautori ma anche varie band. All’inizio dicevo ironicamente di essere diventato cantautore non per vocazione ma per disperazione, e la disperazione era quella di non essere riuscito a creare una band. Sono molte i gruppi che ho amato, probabilmente sceglierei i Beatles perché hanno convogliato dentro di loro tutto: il talento, il fenomeno di costume, i picchi, le crisi e soprattutto hanno avuto la dignità di non essersi mai riformati, di cercare di raccogliere qualcosa di un epoca che fu come invece fanno i loro “ex-nemici”, i Rolling Stones. Ecco, invece se fossi una band per poi poterla sciogliere sarei proprio i Rolling Stones!
ELIANA SCALA
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