Agnese Contini – Intervista su Desert Earth

Dalle terre del Salento ai deserti texani per affrontare una tematica spinosa: quella della desertificazione. Abbiamo intervistato la chitarrista Agnese Contini, fuori in questi giorni con il singolo “Desert Earth”

“Desert Earth” è un titolo molto eloquente che evoca scenari sterili. La Terra intesa come pianeta ma anche come elemento naturale che accoglie la biodivesità, che protegge e nutre ospitando le colture e il pascolo, diviene un luogo arido e inospitale. Un’immagine forte che fa pensare al processo climatico-ambientale della desertificazione, spesso tristemente promossa dall’uomo attraverso attività di deforestazione e urbanizzazione o ancora per via dell’ inquinamento e dello sfruttamento poco sostenibile delle risorse. Mi vuoi esprimere la tua visione in merito?

Sono molto sensibile al tema della desertificazione climatico-ambientale, ma questa canzone è stata nello specifico un’opportunità per potermi esprimere per la prima volta in tal senso. Credo fermamente che ci voglia maggiore educazione e sensibilizzazione delle vecchie e nuove generazioni. Come credo ci sia bisogno di comportamenti e gesti concreti che ognuno di noi nel suo piccolo può mettere in atto nel quotidiano. Prenderci cura del pianeta è una nostra responsabilità e non può lasciarci indifferenti, poiché tutto ciò che facciamo o che abbiamo fatto in passato purtroppo si ripercuote su noi stessi. 

Nel corso della loro carriera diversi musicisti hanno utilizzato la loro musica come tramite per promuovere il proprio attivismo politico o sollevare tematiche di interesse comunitario, venendo spesso e volentieri criticati per le posizioni prese. La crisi climatica è “affare” della musica? 

Credo che la musica al di là del tema che voglia trattare, sia un mezzo molto potente per comunicare anche il proprio pensiero. 

Ad un cinquantennio dalla dichiarazione del “Giorno per la Terra”, istituito per sensibilizzare alla tutela e conservazione delle risorse naturali del pianeta, ci troviamo ogni anno ad affrontare una data anticipata per il c.d “Earth Overshoot Day”, ovvero il giorno in cui la Terra esaurisce ufficialmente tutte le risorse naturali a disposizione. I dati mostrano chiaramente il graduale peggioramento della situazione negli ultimi 50 anni: all’ inizio degli anni ’70 del secolo scorso risorse e consumi erano in sostanziale equilibrio, con il Giorno del sovrasfruttamento attorno a Natale, mentre dal 1 Agosto 2024 siamo ufficialmente “in debito” col pianeta.
Le tempistiche si sono dimezzate mostrando l’aggravarsi della situazione.
Nonostante la consapevolezza crescente riguardo alle tematiche ambientali e l’interesse promosso da organizzazioni, movimenti e ONG continuiamo a spingere il pianeta oltre ai suoi limiti. Cosa possiamo fare nel nostro piccolo per aiutare la Terra? 

Ci sono piccoli gesti che possono fare tanto se sommati nel nostro quotidiano. Tentare di usare l’auto il meno possibile incrementando l’uso di mezzi ad impatto zero, sprecare meno cibo o meno acqua, incentivare la buona differenziazione dei rifiuti, tentare di produrre meno plastica.  

Cosa ne pensi dei musicisti che si impegnano ad avere un basso impatto ambientale nei loro tour? Lo ritieni fattibile? 

L’idea che ci siano dei musicisti che si impegnano ad avere un basso impatto ambientale nei loro tour è davvero nobile e credo sia di grande esempio per il loro ruolo comunicativo svolto. Sulla fattibilità ho un po’ di dubbi, la questione è assai delicata, in realtà. A mio avviso, non c’è abbastanza consapevolezza di quanto il pianeta sia inquinato, come non c’è ancora abbastanza sensibilità rispetto alla questione “desertificazione” . Sicuramente, da qualche anno a questa parte, si è visto un aumento delle campagne pubblicitarie di sensibilizzazione, ma tutto ciò non basta. Anche perchè purtroppo continuiamo a “comportarci male” o ad esser messi nelle condizioni di sbagliare in quanto ancora poco organizzati.   

I temi ecologisti ricorrono fin dagli anni ’70. Joni Mitchell è stata una pioniera di questo tipo di messaggi, in “Big Yellow Taxi” cantava dei boschi che lasciavano spazio al “progresso” rappresentato dagli edifici in cemento: ”they paved paradise / and put up a parking lot…”, i The Byrds in “Hungry Planet” parlavano in maniera inconfutabile di un pianeta deturpato: “I’m a hungry planet / I had the bluest seas / oh, the people kept choppin’ down / all my finest trees / poisonin’ my oxygen / diggin’ into my skin / takin’ more out of my good earth / than they’ll ever put back in”… il tuo brano invece non lascia spazio alle parole, ma solo alla tua chitarra. Qual è il messaggio che vuoi mandare a chi ti ascolta?

Cercare di fare del nostro meglio sia nei confronti del pianeta che viviamo sia con le persone che incontriamo nel nostro cammino.  

Mi sembra di percepire che oltre alle tematiche che hanno caratterizzato quell’epoca tu abbia anche altro in comune con i personaggi che l’hanno popolata, nelle tue influenze citi infatti George Harrison, Nick Drake, Jimmy Page e “le sonorità blues, country e celtiche di John Butler e Steph Strings” dico bene?

Esatto, c’è stato un momento in cui la ricerca del mio suono è stata segnata dal passaggio dalla chitarra classica (che comunque continuo ad amare ed a usare) alla chitarra acustica. In quel periodo ho ampliato i miei ascolti perchè cercavo quei suoni che fondamentalmente mi facessero “ribollire il sangue nelle vene”. Mi sono affidata alle accordature aperte di Nick Drake e Jimmy Page, al modo camaleontico in cui John Butler suona I SUOI STRUMENTI (la sua mitica chitarra a 12 corde, il suo banjo e il dobro…), alle sonorità di Mark Knopfler e da lì credo  sia venuto fuori un mondo che io neanche conoscevo, ma che era lì da qualche parte dentro di me.  

Tuttavia l’esordio della tua chitarra su “Desert Earth” (per niente scontata), mi evoca un country rock un po’ polveroso ed aor alla “Blaze Of Glory” una colonna sonora vagamente western…

Mi fa piacere tu abbia percepito questo, perchè era esattamente quello che volevo rendere e se ci sono riuscita ne sono contenta.

Ti avvali della collaborazione di Ester Ambra Giannelli al violoncello, come è nata questa commistione di elementi? 

Io ed Ester ci conosciamo da poco più di un anno, ma è come se ci conoscessimo da una vita. Abbiamo iniziato a collaborare grazie alla mia prima etichetta, la NOS Records Label, con la quale lei collaborava. Avevo già iniziato a comporre “Desert Earth”, ma ho sentito da subito che non poteva essere una traccia di solo chitarra, ma necessitava di quel quid in più. E la risposta era nel violoncello di Ester! Così glielo proposto e in un pomeriggio, nella sala di registrazione del mitico Valerio Daniele, che come sapete ne ha curato il suono, abbiamo registrato il pezzo. E’ stato stupendo e davvero emozionante!  

Nel tuo curriculum artistico ho letto che al percorso musicale hai affiancato la laurea in logopedia, avendo tu stessa problemi alla voce. Reputo molto affascinante il modo in cui hai deciso di affrontare di petto il problema, diventando una “professionista della parola”. Ti va di raccontarmi la tua storia? 

Non nascondo che parlarne non è proprio facilissimo per me. Quando ho iniziato a studiare logopedia all’università, ho dovuto mettere da parte la musica perché lo studio mi portava via tantissimo tempo ed energia. Mi ero iscritta a logopedia perché sono sempre stata incuriosita dall’universo della “voce”, anche perché io in primis ho sofferto di problemi alle corde vocali da piccola. Così, ho iniziato a lavorare su me stessa e considerata la mia inclinazione per la musica, mi sono specializzata successivamente in voce artistica. Ma non mi bastava. Ho capito che non fare musica mi avrebbe reso infelice e soprattutto mi avrebbe allontanata da me stessa. Ho cercato così di recuperare, e dallo studio della chitarra classica sono passata alla chitarra acustica e ho iniziato a comporre. Credo che il mio percorso come professionista della voce e della comunicazione mi abbia “auto-riabilitata” e lo dico ridendomela un po’, perché in fondo penso che ognuno di noi sia portato ad auto-salvarsi in qualche modo. Ma penso anche che entrambi i percorsi siano strettamente collegati tra loro e che abbiano come fulcro il volermi ritrovare.  

E’ passato un anno dalla pubblicazione del tuo primo album totalmente in strumentale “Dinamiche di Volo” con NOS Records Label. Mi sembra che dalle anticipazioni: “Grandpa Cloud” (Aprile 2024) e “Desert Earth” un eventuale nuovo album possa raccogliere una produzione di tipo intimista. C’è qualcosa in cantiere?
Sì certo, ho passato un inverno molto florido dal punto di vista compositivo e ho continuato a registrare nuovi lavori. L’obiettivo è quello di pubblicare un nuovo album.

SUSANNA ZANDONÁ