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YES “UK & European tour 2016 – playing Fragile & Drama” – …

YES “UK & European tour 2016 – playing Fragile & Drama” – …

Quella del primo giugno a Roma è stata una calda serata, che seguiva uno di quei pomeriggi prefestivi che dovrebbero essere tranquilli e che invece si trasformano inspiegabilmente in un girone infernale di traffico. Raggiunta in qualche modo la meta e trovato l’agognato parcheggio, finalmente ci presentiamo davanti al Teatro Olimpico, in una Piazza Gentile da Fabriano affollata, in cui si percepisce un’atmosfera di curiosità ed aspettativa. L’ingresso avviene ordinatamente e l’età dei partecipanti è adeguata a quella della band, a parte la figlia quindicenne di un mio compagno di avventura.
Poco dopo aver preso i nostri posti l’età media si abbassa ulteriormente con l’ingresso di un ventenne, chitarrista in erba che, da solo, veniva a seguire uno dei suoi idoli. Troverà pane per i suoi giovani denti pensiamo in molti.

Alle 21 precise, con puntualità tipicamente inglese, assolutamente fuori posto per le pessime abitudini capitoline, il concerto inizia sulle note di Onward, una canzone composta da Chris Squire e tratta dall’album Tormato. La band è ancora fuori dal palco e sullo schermo passano le immagini di Chris, la cui scomparsa è ancora troppo recente per non infondere un generale senso di commozione e rimpianto. Non sarà l’unico momento di commemorazione del concerto. Subito dopo la band si presenta al pubblico sulle note di Machine Messiah, tratto dall’album Drama, che insieme a Fragile (e non solo) costituisce l’asse portante di questo tour. Il tempo di qualche aggiustamento ai volumi, e gli Yes si compattano sulla successiva White Car, con un seguitissimo Billy Sherwood che, seppur meno scenografico ed istrionico del suo mentore e predecessore, ne ricorda però le movenze e ne ricalca alla grande la possente linea di basso. I brani di Drama si susseguono e la band suona alla grande, con Geoff Downes che occupa la parte centrale del palcoscenico e fa volare le sue agili mani sulla vasta gamma di tastiere che lo avvolge, un ideale ganglio da cui si dipartono le basi melodiche di ciascun brano. Si giunge poi al brano Time and a Word, dal secondo album degli Yes, eseguito in memoria del chitarrista Peter Banks, protagonista dei primi due album dei nostri eroi, che poi lascerà per costituire i Flash …. ma questa è un’altra storia. Con una capatina verso l’album Close to the Edge, dal quale viene eseguito il brano Siberian Khatru, arriviamo all’intervallo, cui i nostri vecchietti hanno pienamente diritto, vistà l’intensità della prestazione fino ad allora prodotta.

L’intervallo giunge propizio anche per noi, che dobbiamo preoccuparci di rianimare il giovane chitarrista che nel frattempo aveva assunto un incarnato piuttosto terreo.
Dopo venti minuti si ricomincia con due brani della seconda era Yes, Going for the One e l’immancabile Owner of a Lonely Hearth, hit con la quale la band è diventata estremamente nota anche nell’Italia degli anni ’80. Subito dopo si ritorna nell’alveo del binomio Drama – Fragile, con una Roundabout incisiva, che da l’inizio alla successione dei brani tratti dall’album del 1971, con un importantissimo “punto di controllo” costituito dall’accoppiata “Long Distance Runaround” – “The Fish”, che si porta dietro il suggestivo assolo di basso concepito e sviluppato dal grande Chris. Inutile dire che tante paia di orecchie erano tese e pronte a fare confronti, ma Billy Sherwood ha convinto magistralmente anche il più scettico degli osservatori, con una prova poderosa e precisa che si è conclusa in una ovazione. La scelta di uscire dal palco lasciando il solo Steve Howe ad eseguire “Mood for a Day”, permette a Billy di ricevere il giusto e prolungato tributo di applausi; subito dopo, fatta la quasi totale oscurità, le note magiche della chitarra acustica di Steve ci ipnotizzano ancora, con una versione del brano per l’ennesima volta rinnovata, rivista e riarrangiata. Hearth of the Sunrise conclude alla grande l’esibizione e l’immancabile bis ci viene proposto con la fantastica Starship Trooper, con un fantasmagorico assolo di chitarra finale che tutti noi avremmo voluto potesse non finire mai.

 Gli Yes, che non sono proprio dei giovincelli, hanno suonato per 2 ore piene, non considerando naturalmente l’intervallo, un buon esempio per tante band, anche molto note, che si limitano a fare il minimo sindacale. A questo punto va fatto  un minimo riferimento al nuovo cantante Jon Davison, che appare obiettivamente un’ottima scelta sia in termini di estensione vocale che di carica “spirituale”, ma che purtroppo non raggiunge ne’ la purezza Himalayana della voce dell’altro Jon ne’ la sua mistica gentile gestualità. Difficile per me fare un’analisi fredda e razionale del concerto, ho amato gli Yes da quando ero poco più che bambino, mi hanno accompagnato in tutto il percorso della vita, la prima volta che li ho visti dal vivo al Palasport non ho parlato per tre giorni. Sono andato a vederli negli States, dove le loro esibizioni sono parecchio più ardite nella scelta dei brani, li ho visti all’epoca dell ultime esibizioni di Rick Wakeman e ancor più di recente, nei difficili tempi del post Jon Anderson.

Ho fatto questa premessa per autoaccusarmi di scarsa obiettività quando si tratta di
Yes, ma un elemento di prova del fatto che si sia trattato di un grande concerto posso indicarlo nelle espressioni trasfigurate dall’emozione di tutti coloro che mi circondavano, ivi compresa la giovane fan che mi accompagnava, alla quale i fonici dello staff hanno carinamente regalato il foglio della track list. Un ultimo doveroso cenno va dedicato al giovane chitarrista, che dopo “Mood for a Day” abbiamo tutti temuto di perdere, ma che grazie alla capacità di recupero che è propria della gioventù abbiamo visto sgambettare felice verso l’uscita e speriamo verso una vita di “pace, amore e musica”.
Love and Light Chris
 
PIERLUIGI FRIELLO 

Questa la formazione dal vivo: 
Steve Howe (chitarra)
Alan White (batteria)
Geoff Downes (tastiere)
Jon Davison (voce)
Billy Sherwood (basso)

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