Glenn Hughes @ Alcatraz Milano 22.05.2024
Glenn Hughes @ Alcatraz Milano 22.05.2024
Glenn Hughes aka “The Voice Of Rock”, forse uno dei pochi musicisti rimasti ad incarnare quell’epoca di ribellione a cavallo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, in cui i capelloni hippies sfidavano l’ideologia violenta della guerra mettendo dei fiori nei cannoni.
Lo chiamavano “flower power” ricordando il poeta Allen Ginsberg che coniò l’espressione.
Una colomba, simbolo universale di pace, si tinge dei colori arcobaleno nel backdrop psichedelico che immortala il frontman nei suoi anni migliori (oggi ne ha 72 ma ne sente la metà), un vezzo nelle tonalità del caratteristico viola “Deep Purple” e dell’ arancio, suo colore complementare.
In british english: “Orange”, come gli amplificatori per basso alle sue spalle.
Fin dalle prime note della carismatica “Stormbringer” si de-nota come Hughes sia un uomo che viva gli estremi tipici di quelle celebrità che durante la propria carriera hanno vissuto pienamente il dolore.
Un viaggio negli inferi delle dipendenze a discapito della propria autonomia: morte e risurrezione, poi la religione e il ritorno negli anni novanta con una carriera solista di tutto rispetto, sfornando dal 1992 (anno di “L.A. Blues Authority Volume II“), una media di un album all’anno, fino al 2016 che è caratterizzato dall’uscita di “Resonate“. Quindi di nuovo il buio.
Attualmente trapela la possibilità di qualcosa di nuovo con i Black Country Communion.
Veder esibire Glenn Hughes è un’esperienza potente che trasmette una grande sensibilità artistica ed umana. L’ immutata forza vocale che conserva gelosamente è come un grido che si erge maestoso sopra il pubblico acclamante.
Non si accontenta di esibirsi ma vuole “sentire” la gente e “viverla”, si percepisce dal fatto che domandi spesso al pubblico: “do you feel it?”.
Ma è fin troppo lapalissiana la nostalgia che trapela dietro le lenti di quegli occhiali da sole scuri.
Commuove quando ricorda lo scomparso tastierista Jon Lord che lo invitò ad unirsi alla comitiva Deep Purple, proprio alla fine di uno spettacolo dei suoi Trapeze al Marquee Club di Londra.
Era il 1974 e si dava alle stampe “Burn” album che segna la formazione Mark III, quel carro armato pesante che designò il binomio tra David Coverdale (Whitesnake) alla voce e Ritchie Blackmore (Rainbow) alla chitarra.
Album riprodotto live solo parzialmente, diversamente da quanto preannunciato. Introducono “Might Just Take Your Life” e una inaspettata “Sail Away“, mai suonata nei concerti dal vivo.
Glenn Hughes è un virtuoso del basso e non si tira indietro quando c’è da improvvisare, suona solo otto canzoni ma riesce a risultare incredibilmente creativo nella proposizione di variazioni tematiche funk, rythm’n’blues e jazz con un grande ascendente nella musica afroamericana: si denota chiaramente in “You Fool No One“, brano della durata di venti minuti erotti che diventa occasione per un medley con “High Ball Shooter” a sua volta intervallato da un infinito e mirabolante assolo di batteria a cura di Ash Sheehan che appropriatosi del palco reclama la sua fetta di gloria.
Un vero mulo che non si sottrae ad effetti piro-tecnici.
Grande spazio offerto anche al chitarrista danese Søren Andersen, sorridente e ineccepibile. Fanno simpatia le sue facce buffe, trasmette una grande positività, riesce a coinvolgerti stando sul palco in maniera discreta, senza eclissare il protagonista ma piuttosto supportandolo negli assoli.
Qui è la chitarra che serve il basso e non il contrario.
La malinconica e soul “Mistreated” permette il passaggio al periodo Mark IV con due brani tratti da “Come Taste The Band“; unico e decisamente poco apprezzato prodotto della formazione che recluta il chitarrista Tommy Bolin, scomparso nel ’76 a seguito di un mix mortale di alcool e sostanze.
“Getting Tighter” lo ricorda e Hughes urla più volte straziato il nome “Tommy”, vuole ricordare dove gli altri hanno dimenticato.
“You Keep On Movin’” chiude il set (si fa per dire), il bassista ci avverte che ritornerà ma tutto sommato forse ha solo paura di lasciarci.
Come è consuetudine i fan lo acclamano a gran voce e i quattro ritornano sul palco con “Burn” che incendia il locale fino a farlo detonare.
SUSANNA ZANDONÀ
Credits: si ringrazia Erocks Production per la gentilissima disponibilità e la perfetta organizzazione dell’evento.
BAND:
Glenn Hughes (basso/voce)
Søren Andersen (chitarra)
Ash Sheehan (batteria)
Bob Fridzema (tastiere)
Better known as Violent Lullaby or "The Wildcat" a glam rock girl* with a bad attitude. Classe 1992, part-time waifu e giornalista** per passione. Nel tempo libero amo inventarmi strambi personaggi e cosplay, sperimentare in cucina, esplorare il mondo, guardare anime giapponesi drammatici, collezionare vinili a cavallo tra i '70 e gli '80 e dilettarmi a fare le spaccate sul basso elettrico (strumento di cui sono follemente innamorata). *=woman **=ex redattrice per Truemetal