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FRONTIERS ROCK FESTIVAL 2018 – Live @ Live Club, Trezzo Sull’Adda (MI) 28/29-4-201 …

FRONTIERS ROCK FESTIVAL 2018 – Live @ Live Club, Trezzo Sull’Adda (MI) 28/29-4-201 …

Day 1
Sono gia passati 5 anni???
Proprio vero che il tempo vola – più passa il tempo e più questo festival di matrice tutta italiana si conferma essere un buon punto di riferimenti per tutti gli amanti del rock melodico – e non solo d’Italia.
Italia? Assolutamente no data la grande affluenza di gente da tutta Europa (Svezia, Germania, Croazia, Francia, Spagna…) e persino dagli Stati Uniti o dal Giappone – tutti qui a vedere un evento più unico che raro dato che vi sono raggruppati assieme nuovi e vecchi nomi del Gotha AOR/Hard Rock sotto l’egida dell’etichetta napoletana Frontiers Records, sempre più una garanzia.
Bella come sempre la possibilità di incontrare ed interagire con musicisti, fan, esperti del settore, veterani di festival e novizi… tutti qui per la stessa passione, che ci dimostra che – come recitava una maglietta in vendita al sempre ricco banco del merchandise – “il rock non é ancora morto”.
Sono le 15 di un pomeriggio d’Aprile piuttosto caldo quando sul palco arrivano i nostri portabandiera, gli italiani Hell in The Club che nella mezz’ora concessa offrono potenza, precisione e divertimento – cioè esattamente ciò che ci si aspetta da band di tale caratura ed esperienza.
Inizialmente un po’ timidi, hanno cominciato a scaldarsi per bene dal terzo brano Houston, we’ve got no money, grazie anche alla presenza dell’astronauta protagonista del video a dare colore alla scena.
Il resto è tutta discesa per i nostri, che riescono a tenere il palco agevolmente grazie alla doppietta We are the ones e We are on fire, dove c’è posto anche per una dedica speciale “a chi ci crede ancora”  – vedi il discorso precedente.
Chiudono alla grande con la loro classica Devil on my shoulder in cui dimostrano di essere assolutamente all’altezza di tutti i nomi del festival e di un grande palco come quello del  Live di Trezzo: ben fatto ragazzi, c’è ancora speranza per il rock in Italia!
Tocca ora agli inglesi Bigfoot che offrono una prestazione molto energica dando vita a pareri contrastanti: molti hanno osannato la loro performance mentre altri non ne sono stati impressionati.
Come sempre la verità sta nel mezzo, sicuramente i 5 di Wigan hanno grande qualità e ci mettono impegno ma devono ancora maturare in quanto a presenza, lasciata unicamente al singer Anthony Ellis e alle sue costanti smorfie alla Jack Black – francamente un po’ distraenti a lungo andare.
Ma siamo qui a parlare di musica: come dicevo tanta energia in questi 7 brani presentati, il pubblico è attento ed entusiasta soprattutto in brani efficaci quali Freak Show o la conclusiva The Fear, vera ciliegina sulla torta di uno show tutto sommato piuttosto buono – in attesa di vederli nuovamente.
E’ tempo di un supergruppo: i norvegesi Ammunition, che comprendono membri (o ex) di band storiche quali Wig Wam, TNT o Eclipse – il cui cantante/chitarrista Erik Martensson non è però presente causa impegni in Giappone.
I 5 di Oslo fanno del loro meglio e si appellano alla loro esperienza per catturare il pubblico nei 50 minuti a loro disposizione ma alcuni problemi tecnici penalizzano non poco la loro performance non dando troppo risalto alla voce e costringendo la band ad uno stop forzato durante la pur convincente Road to Babylon a causa del malfunzionamento di un cavo, fortunatamente sostituito in pochi minuti.
La band non si arrende, il pubblico fa la sua parte incitandoli ed i nostri rispondono offrendo brani ad effetto con rimandi più o meno evidenti ai Def Leppard, all’Alice Cooper di Poison in un crescendo culminante nella ottima Eye for an eye.
Nulla di trascendentale in effetti ma non dimentichiamoci dei problemi che hanno caratterizzato il loro concerto – rimandati quindi, sperando di poterli rivedere presto perché la qualità non manca e la si sente.
Il tempo scorre veloce a suon di rock e sono quasi le 18 quando salgono sul palco dei veri veterani, gli inglesi Praying Mantis, band che a mio avviso ha raccolto decisamente meno di ciò che negli anni (o decenni) ha seminato – sempre con grande qualità.
Da granitici portabandiera della NWOBHM si sono spostati con gli anni su sonorità più melodiche ed eccoli alla loro seconda apparizione sul palco del FRF a portare tanta qualità ed esperienza.
Come sempre una garanzia, gli inglesi soffrono un po’ ad inizio concerto: il volume delle chitarre è al minimo, quasi non si sente – ma i nostri vanno avanti, il suono ritorna poco prima di attaccare con la classica Captured City che esalta i presenti.
I Mantis sono dei veri rulli compressori e sfoggiano una esperienza e classe che li porta a passare sopra a queste difficoltà, registrando un DVD della loro performance – e per questo stanno proponendo un mix di classici con estratti dal loro lavoro più recente.
Giusto il tempo di festeggiare con grandi applausi il compleanno del chitarrista Tino Troy e via verso la tripletta finale composta dalla sognante Dream On, la granitica Fight for your honour e l’acclamatissima Children of the earth a chiudere una esibizione convincente che conferma i Mantis come uno degli act migliori della giornata grazie al loro impeto e alla grande esperienza: ben fatto!
Con le orecchie ampiamente soddisfatte dall’esibizione mi accingo a porre attenzione al successivo act che promette scintile: va infatti di scena la Michael Thompson Band, gruppo guidato da quella vecchia volpe di Michael Thompson, session man di lusso di artisti fenomenali quali Cher, Anita Baker, Joe Cocker, MeatLoaf, Christina Aguilera, Shania Twain e persino Superstar quali Phil Collins, Celine Dion e Madonna.
Nemmeno a dirlo, l’esibizione è eccellente – forse fin troppo, anche grazie allo spirito e alla voce del cantante Larry King che non sbaglia un colpo e sa essere un ottimo showman regalandoci momenti di classe pura come solo gente abituata a compiti del genere sa fare.
Grandi dunque – e perfetti nel loro classic rock preciso ma poco dinamico: il pubblico è attento ed emozionato ma solo il gran finale, con la immortale cover di More Than a Feeling dei Boston smuove davvero tutti i presenti che cantano a squarciagola soddisfatti e testimoni di una esibizione unica.
E’ ora di cena, il chiosco del cibo viene preso d’assalto mentre ci si prepara ad un’altra esibizione tanto attesa – quella dei Quiet Riot, o meglio la Frankie Banali band dato che l’unico membro della formazione originale è proprio l’istrionico batterista mentre al basso troviamo il “comandante in seconda” Chuck Wright.
La vera e propria incognita invece è il giovane cantante James Durbin, voluto fortemente dai Riot dopo una convincente esibizione ad un talent show americano, ma l’orecchiuto singer si dimostra all’altezza del compito di sostituire un mostro sacro come il compianto Kevin DuBrow: all’inizio un po’ timoroso va via via rilassandosi diventando sempre più ipercinetico e saltellando da una parte all’altra del palco incitando la folla pronta a rispondere.
Il set presentato alterna classici come Silk black Cadillac e Mama weer all crazee now a stralci dei QR anni 90 come Whatever it Takes e Terrified nei quali la band, nonostante i suoni un po’ impastati, riesce a destreggiarsi bene.
La ruggine però si sente e nonostante lo sfoggio di potenza qualcosa manca… emblematica la domanda rivoltami da Kip Winger – che ho avuto la fortuna di incontrare al banco Merchandising durante l’esibizione dei suddetti: “chi sta suonando adesso?”
Alla mia risposta “Beh, sono i Quiet Riot” il buon Kip mi guarda e risponde “Cooosa? QUELLI i Quiet Riot?! Incredibile”.
Tutti attendono la doppietta finale ed eccola arrivare dopo 12 canzoni: c’è una Cum on feel the noize da cantare, ballare e godersi… ma ecco che il giovane Durbin calza la iconica maschera di ferro simbolo della band e cominciare ad intonare le prime parole di Metal Health, classico tra i classici che fa dimenticare a tutti quanto sia difficile fare i conti con le glorie del passato ed il conseguente peso da portarsi dietro.
Quando tutto sembra finito ecco che i nostri propongono una cover – francamente discutibile – di Highway to hell lasciando una domanda nella testa dei presenti: era proprio necessaria? Rimandati.
E’ ora tempo di catechismo, è il momento degli Stryper – band da me tanto attesa e fresca di un buon lavoro come God Damn Evil e già al loro secondo FRF dopo avere partecipato alla prima edizione.
Sin da subito si presentano in gran forma, Michael Sweet sembra non avere perso lo smalto, l’uso di basi soprattutto nei cori aiuta anzi a mettere in evidenza la sua voce che pare non perdere un colpo: impressionante.
Bello e costante il suo dialogo con il pubblico a cui chiede a più riprese se ha o meno nostalgia degli anni 80 – ed ecco che partono appunto con piccoli/grandi successi della band come Calling on you o In God We Trust, dopo essere partiti “a bomba” e non esseri fermati un attimo se non per lanciare le Bibbie (in realtà un volumetto del Nuovo Testamento con il loro logo adesivo impresso) al pubblico acclamante.
La band è una vera macchina da guerra e Oz Fox sembra inarrestabile mentre si lancia in brani quali Surrender, Soldiers Under Command o la più recente God Damn Evil.
Anche la sezione ritmica ha il suo bel da fare: Perry Richardson (già alla ribalta con i Firehouse) è sempre più padrone del suo ruolo e Robert Sweet… beh è semplicemente il grandissimo Robert Sweet!
Momenti magici sulle note di Always here for you e del classicone Honestly, conosciuta e cantata da tutti e che vede il solo Michael Sweet alle prese con una base di pianoforte – in attesa della bomba finale: To Hell with the Devil.
Di vera bomba si tratta, il pubblico è tanto ed è partecipe e non attendeva altro che essere scosso a dovere da una esibizione spettacolare dei quattro americani che hanno offerto sicuramente il momento migliore di una giornata che pur sfoggiando diverse eccellenze non aveva fornito sin ora reali emozioni.
Grazie quindi agli Stryper che si confermano all’altezza del ruolo di headliner, seguiti a ruota – in ordine di personale preferenza – dai Praying Mantis e dalla Micheal Thompson Band.
 
Day 2
Un po’ dubbiosi per quanto riguarda la possibile affluenza di pubblico e la line-up forse un po’ più sottotono, ci accingiamo a varcare nuovamente le porte del Live Club, sempre più protagonista per eventi di questa portata in Italia.
Alle 15 in punto ci pensano gli svedesi (che strano, così poche band scandinave quest’anno?) Perfect Plan, per nulla intimoriti dal loro scomodo ruolo di opener che offrono un convincente AOR con qualche venatura prog – a tratti più somiglianti band classiche di genere come i Foreigner e in altri momenti più ai maestosi Royal Hunt.
Brani come Never Surrender o 1985 risultano particolarmente divertenti e “genuini” – i nostri sono infatti tra i pochi a non avvalersi di basi o piccoli aiuti nei cori – riportandoci con la testa direttamente agli anni 80.
La più che degna conclusione è affidata al singolo In and out of love, con cui i nostri lasciano il segno su una giornata che si prospetta infuocata nonostante fuori la temperatura si sia abbassata.
Poco male, ci pensano i giovani croati di belle speranze – gli Animal Drive, a tenere in temperatura l’audience con il loro granitico hard rock e la loro carica animale – appunto: la presenza scenica è da artisti consumati, i brani sono efficaci e rendono bene dal vivo. Se a ciò aggiungiamo che il singer Dino Jelusic (già all’opera nientemeno che con la Trans Siberian Orchestra) saluta e dialoga col pubblico in lingua italiana – possiamo confermare che hanno fatto assolutamente centro grazie anche a brani come Hands of Time (più melodica) o la roccheggiante Tower of lies. Ottima prova davvero, li aspettiamo in tour quanto prima!
Prima ed unica donna a calcare il palco del Frontiers Festival di quest’anno – ecco Issa, singer norvegese di buon talento, tanta grinta ed un po’ di sostanza, supportata in questo frangente nientemeno che da Simone Mularoni  alla chitarra – già all’opera con i DGM e al bassista Andrea “Tower” Torricini direttamente dai Vision Divine.
Capelli al vento, di buon impatto scenico ma un po’ imprecisa – la nostra Issa offre una onesta prestazione, un po’ manieristica in realtà, rifacendosi a grandi voci femminili del genere come la splendida Robin Beck: brani quali Sacrifice Me (che nella versione studio conta la presenza del grande Deen Castronovo – qui sostituito egregiamente dal cantante degli Animal Drive, Dino Jelusic) o la bella Can’t stop coronano più che degnamente i 50 minuti del suo set.
Ecco però la vera sorpresa del Festival, a riempire un vuoto lasciato all’ultimo dai Pretty Boy Floyd, arrivati in grande ritardo a causa (pare) di una rissa scatenata già all’interno dell’aereo per Milano, viene comunicato uno speciale set acustico del grande Kip Winger, trattenuto apposta per l’occasione dopo avere partecipato al VIP show del venerdì.
Solo lui e la sua chitarra, solo 6 brani per uno set assolutamente perfetto e – seppur minimale – molto molto coinvolgente: del resto la scaletta presenta brani di grande valore quali Miles away, Headed for a heartbreak, Down Incognito e Easy come easy go in cui il buon Kip non deve nemmeno sforzarsi troppo di cantare, con un pubblico così partecipe e che sembra avere davvero molto apprezzato la sorpresa.
Ma eccoli, i Pretty Boy Floyd – riusciti a rimediare un volo per Milano in tempo per il loro show tutto glitter e potenza: partono subito con il loro classico Leather boyz with electric toyz combattendo un po’ con i suoni pastosi e confusionari che hanno purtroppo caratterizzato diverse esibizioni in questo weekend… in questo caso troppi bassi in evidenza rischiano di tagliare fuori il suono delle chitarre e soprattutto la voce del carismatico Steve Summers.
Nonostante ciò molta gente accorre e acclama seguendo una prestazione senza infamia e senza lode, che cresce di intensità via via che si avvicina il finale – affidato a brani di sicuro impatto come Rock and Roll (is gonna set the night on fire) e la demi-ballad I wanna be with you, gettando le basi per un buon ritorno sulle scene ad alta velocità.
Cercate un po’ di classe? Niente di meglio degli inglesi FM allora: un ritorno sulle scene dopo un buon lavoro in studio, Atomic generation, li porta a calcare nuovamente il palco del Festival – ed è come se fossero sempre stati lì.
Sciolti, carichi, precisi e coinvolgenti i britannici ci offrono uno show degno di nota mischiando grandi classici e nuove hits in una scaletta lunga ben 75 minuti e condita da effetti speciali.
Brani come I belong to the night si intrecciano a nuove ed azzeccate canzoni come Killed by love: i cori sono coinvolgenti, il pubblico è partecipe e sempre plaudente ed i nostri a loro volta aumentano l’intensità della loro prestazione con le ballad Closer to Heaven (quanto è in forma Steve Overland!!!) e Story of my life fino alla micidiale doppietta finale con la celeberrima That girl e la splendida The other side of midnight.
Gli applausi sono talmente scroscianti da non sentire i miei pensieri, l’unica cosa che so è di avere assistito ad una prestazione favolosa da parte di questi “vecchietti” che possono ancora dare lezioni di altissima classe a chiunque: spettacolari!
Nemmeno il tempo di fare rallentare il battito cardiaco ed ecco salire sul palco – anticipati dalle note della colonna sonora del Padrino – i CoreLeoni, ovvero Leo Leoni e Hena Habegger dei grandi Gotthard coadiuvati dall’ottimo Igor Gianola, già chitarrista negli U.D.O. e con un breve precedente degli stessi Gotthard ai tempi di Dial Hard, il poliedrico bassista Mila Merker ed il giovane e talentuoso Ronnie Romero, già all’opera con i Lords of Black e attuale frontman della nuova reincarnazione dei Rainbow di Ritchie Blackmore, nientemeno.
La loro presenza è stata confermata quasi all’ultimo, dovendo sostituire i Jack Russel’s Great White, eliminati dal bill del Festival in seguito ad un cambio di etichetta un po’ a tradimento avvenuto a sorpresa dopo avere già dato disponibilità – ma i Leoni svizzeri non fanno certamente rimpiangere lo Squalo Bianco americano fornendo una prestazione memorabile e tutta ovviamente incentrata su quella discografia che gli attuali Gotthard faticano a portare in scena.
Standing in the light, Downtown e la fantastica Firedance mostrano una band coesa, in gran forma, matura, che sa divertire e sa divertirsi sul palco… Leo, Igor e Hena scherzano con il pubblico parlando in italiano, Ronnie invece sfoggia un talento incredibile ed un carisma da frontman consumato (non a caso è stato invitato alla corte di Blackmore), una voce pazzesca tanto da fare in più momenti ricordare da vicino il grande – e mai abbastanza osannato – Steve Lee.
Le macchine da guerra elvetiche continuano la loro marcia con All I care for e le roboanti Mountain Mama e She goes down in un finale pazzesco che dà la carica a tutti i presenti lasciando l’eco di una prestazione di altissimo livello e una domanda: che siano LORO i veri Gotthard, adesso?
Ai posteri l’ardua sentenza, anche perché adesso non è più tempo di domande – dopo una lunga attesa è il momento dello straordinario Jorn Lande con la sua omonima band, pronto a chiudere il festival registrando la performance che presto vedremo in DVD, a supporto dell’ultimo lavoro in studio – Life on a death road.
L’esibizione comincia più tardi del previsto, viziata dallo spostamento del bill da parte dei Pretty Boy Floyd – e ciò non giova alla serata in quanto molti, sazi della esplosiva esibizione dei CoreLeoni cominciano ad abbandonare la sala.
Il talentuoso singer norvegese si fa attendere ma ci ripaga con una esibizione magistrale dal punto di vista vocale, ma forse con poca comunicatività – e da questo punto di vista né la scaletta presentata né il pubblico lo ha aiutato più di tanto.
Molte le cover, quasi tutte efficaci ed in stile – in molti avrebbero preferito più brani originali, data la lunga e poliedrica carriera dell’artista che presta la sua voce a band come Brazen Abbott, Masterplan, i formidabili ARK,i Millennium, il progetto Avantasia – tanto per citarne alcuni.
Brani come la rocciosa Bring heavy rock to the land, l’atmosferica Blacksong, la tempestosa Stormcrow tolgono ogni dubbio sul valore dei brani proposti da Jorn e dalla sua band – qui coadiuvata dal “padrone di casa” Alessandro Delvecchio alle tastiere e dal ritorno del fido Tore Moren alla chitarra.
La prima cover è l’intramontabile Ride Like the wind di Christopher Cross, piuttosto fedele all’originale e resa senza alcuna sbavatura, ottimo apripista per la stupenda Out to every nation, dall’omonimo album di Jorn – oramai divenuta un classico.
Acclamata a gran voce tramite la pagina Facebook del Fan Club italiano, Jorn presenta Master of Sorrow – dal fortunato progetto in coppia con Russell Allen, ma è un po’ deluso dalla risposta dell’audience che inizialmente fatica a cantare assieme a lui un brano comunque stupendo, tanto che Delvecchio si ferma e ricomincia la canzone da capo per coinvolgere il pubblico ancora di più, pubblico che causa l’ora tarda tende sempre più a diminuire.
E’ l’ora di un’altra cover – la celeberrima Shot in the dark di Ozzy, che serve a dare una sveglia ai presenti in vista di altri brani quali Walking on water (dal progetto Dracula – e qui si che il pubblico canta!) o la granitica I came to rock, riuscendo a tenere alta l’attenzione dei presenti.
Ma eccolo, il segreto di pulcinella: i nostri salutano, si abbassano le luci dal palcoscenico e cala un sipario dietro al quale si vedono tecnici provvedere ad un cambio – che purtroppo non sarà affatto rapido – di batteria. Già infatti si era notata la presenza di Francesco Jovino, il nostrano batterista in forza ai Primal Fear e non solo, quindi in molti hanno pronosticato una sua presenza sul palco con il nostro Jorn.
Cosi’ è – ma solo per il gran finale affidato a Travellers, la bella Rock and roll angel e al tributo doveroso al suo “padrino” Ronnie James Dio con una bella versione di The Mob Rules dei Black Sabbath ed una invece non molto convincente Rainbow in the dark dei Dio.
Il colpo di coda è affidato a Lonely are the brave, ma è l’una di notte ormai e i pochi rimasti tributano una giusta ovazione alla principale attrazione della serata che forse meritava maggiore partecipazione ma che non ha mai mancato di offrire classe e professionalità. Quanto ritornerà in Italia?!?
Non mi resta che tirare le somme di un weekend come sempre spettacolare, un po’ più altalenante forse rispetto ad altre edizioni a cui ho partecipato – vuoi per il livello un po’ discontinuo delle band presentate e da una serie di problemi tecnici sul palco o eventi sfortunati quali l’abbandono dei Jack Russel’s Great White o il ritardo dei Pretty Boy Floyd che sono sicuro serviranno all’organizzazione come sprone per andare avanti (lo speriamo vivamente tutti!) e presentare sempre più giovani band di spessore (Animal Drive e Prefect Plan i più convincenti) misti a vecchie glorie e graditi ritorni (strabilianti gli Stryper e i CoreLeoni ad esempio), magari con meno carne al fuoco ma allo stesso tempo con nomi più ghiotti – ed affidabili.
Tutto è possibile in casa Frontiers e ce l’hanno ampiamente dimostrato in questi vent’anni gloriosi: aspettiamo trepidanti il prossimo anno!
 
Santi Libra
Day 1:
Hell in the Club
Bigfoot
Ammunition
Praying Mantis
Michael Thompson Band
Quiet Riot
Stryper

Day2:
Perfect Plan
Animal Drive
Issa
Kip Winger (acoustic set)
Pretty Boy Floyd
FM
CoreLeoni
Jorn

Credits: si ringrazia la Frontiers per la gentilissima disponibilità e la perfetta organizzazione dell’evento.