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Pokémon Go: realtà aumentata e analfabetismo videoludico

Pokémon Go: realtà aumentata e analfabetismo videoludico

Dieci e qualcosina anni fa o avevi un invito per la festa della tipa e il passaggio degli amici grandi (o del papà) o te ne stavi a casa.
Io me ne stavo a casa. Ecco come ho accumulato 240 ore di gioco su Pokémon Rubino. Solo per far capire che non odio affatto i Pokémon, ho finito il pokédex, io. Chiedete al Prof. Oak.
Ovviamente non ci sono solo i Pokémon, ma un intero sterminato universo di videogiochi, partite a Risiko, scacchi, Magic: the Gathering, backgammon, in una parola: il gioco. La mia esistenza ne è permeata. ‘Nel gioco c’è sempre qualcosa in gioco’. Contrariamente a quanto lo stereotipo lascerebbe intendere, non sono mai stato bullizzato per le mie passioni ‘da nerd’, e non ho mai vissuto male le mie serate passate a giocare a Klonoa 2: Lunatea’s Veil mentre i miei amici che volevano fare i grandi se ne andavano a ballare ubriacandosi di Bacardi. Mentre loro sviluppavano un’intelligenza sociale e accumulavano esperienze in prima persona, io mi facevo di Final Fantasy X. Per loro ricordi indelebili di vacanze a Ibiza, per me la mimetica ottica in Metal Gear Solid 2.
Bella merda, direte voi. Meglio Ibiza. In realtà ogni tanto lo pensavo anch’io mentre Otacon gridava ‘SNAKE!? SNAAAKE!’ da dietro alla schermata di game over.
Che ci ho guadagnato? E che c’entra con Pokémon Go?
Quello che ho guadagnato è una selettività della sfida. Ovvero, la capacità di scindere e preferire con coscienza in un mondo vasto e variegato come quello dei videogame. Tanto poi c’è stato tempo per capire quali fossero i locali aperitivo giusti, e persino a me è capitato di scopare, giuro. Ok, a Ibiza non sarebbe stato male.
Tornando alla questione della selettività della sfida: i giochi che ho imparato ad amare e con i quali ho speso più tempo sono quelli che hanno saputo mettermi di fronte ad un complesso problem-solving, a decisioni da prendere in un battito d’ali, o quei giochi in cui si vive sulla pelle l’emozione di uno scontro di intelletti dal retrogusto quasi darwiniano. Soprattutto nella sfida online con altri player ho sempre avvertito il brivido e l’ebrezza del dominio di una mente sull’altra, e nulla mi ha mai divertito tanto. Nonostante la scena del videogaming vada impoverendosi in questo senso, escono ogni anno titoli che aspettano solo di essere scovati da un occhio attento.
E poi c’è tutto il resto. E’ una cosa che l’industria dei videogiochi fa da una decina di anni: i giochi per i giocatori occasionali. Hanno qualche denominatore comune: spettacolarità, PARVENZA di competizione, ma soprattutto..
NESSUNA REALE SFIDA. La differenza sostanziale tra ciò che amo e ciò che odio è il sentimento da cui deriva la mia soddisfazione nella progressione nel gioco: da una parte, la mia abilità messa alla prova, dall’altra, il senso di accumulo seriale, l’idea di una sfida fatta appositamente per essere superata in un unico modo o per circostanze fortunate e randomiche.
E’ con un minimo di tristezza che ho visto nascere e crescere il fenomeno del ‘videogioco di massa’, ma allo stesso tempo è proprio grazie alla diffusione del casual gaming che lo sviluppo di ottimi titoli è stato possibile, visto che la prima conseguenza è stato l’allargamento del bacino di core gamers (ovvero gli intrippati).
Qualche esempio di videogioco di massa? Da GTA a Candy Crush, da Angry Birds a Call of Duty, passando per tutti i giochi per smartphone (o quasi).
Tutto questo per dire che:
Quasi un decennio di massificazione del videogioco ha portato a una (relativa) tragedia: un diffuso analfabetismo videoludico.
Troppe persone hanno giocato troppo poco e troppo male per filtrare quel che di buono questo mondo ha da offrire.
E’ l’equivalente dei cinepanettoni che sbancano al botteghino. E’ l’equivalente di Fabrizio Corona che vende libri in Feltrinelli. E’ l’equivalente di un voto per Salvini. E’ solo che il giocatore medio, al pari dell’italiano medio, non ha gli strumenti per rendersene conto.
Ed ecco che entra in scena Pokémon Go, il primo vero amalgama perfetto in grado di abbracciare una fetta così ampia di casual gamers da diventare un vero fenomeno sociale.
Un elenco di fattori per il boom:
1. Nerd is cool. Non so chi l’ha deciso e quando, ma -come dicevo- grazie a ‘sta storia scopo, quindi nulla di cui lamentarsi.
2. Childish is cool. Anche questo non so chi e quando l’abbia stabilito, ma assistiamo a un vero e proprio revival dei tormentoni degli anni ’90, da Gigi d’Ag alle Tartarughe Ninja passando per Cristina D’Avena. I Pokémon non fanno eccezione.
3. Gaming outside. La maggior parte della gente sopra i sedici quando è a casa ha un sacco di cazzi, non spenderebbe il suo tempo a giocare. Se invece ci si becca per l’aperitivo con le squinzie e mi allontano un attimo per catturare un Mankey, però, è un altro paio di maniche. Puoi persino far vedere che sei nerd e childish senza nemmeno mettere gli screenshot su Facebook, pensa un po’.
4. Parvenza di social gaming e competitività. Siccome lo hanno tutti, hai modo di vantarti dei tuoi achievements. Nota bene: Il grinding (meccanismo di progressione ripetitivo e meccanico) estremo su Pokémon Go è scellerato e privo di qualunque genere di sfida intellettiva, ovvero non è nulla che una scimmia o un programma con le gambe non possano fare.
5. Utilizzo delle ultime feature della realtà aumentata. Non si gioca più semplicemente su uno schermo, si filtra la realtà tramite la fotocamera. Quanto cazzo è figo? Si ha quasi la sensazione che le piene potenzialità di uno smartphone restino inespresse se non si installa Pokémon Go, e probabilmente è davvero così.
6. Gratis. Giocare non costa niente. Se conto quanto denaro ho speso in videogame, verrebbe da dire che è una gran bella cosa. La realtà è un’altra. La totale tracciabilità della della tua posizione tramite GPS è materiale prezioso per indagini di mercato, e la capacità di “pilotare” i giocatori in un luogo specifico è uno strumento nuovo, potente e pericoloso. Un esempio provocatorio: Se la Nintendo firmasse un contratto con McDonald’s per il quale una volta a settimana un pokémon leggendario ampiamente pubblicizzato si epifanizzasse in diversi fast food sparsi per lo stivale, quanti panini in più venderebbe McDonald’s quello specifico giorno a settimana? Non voglio sembrare il Kadmon della situazione, ma se non paghi per qualcosa è perché sei tu il prodotto.
7. Viralità. Se i tuoi amici giocano, vuoi farlo anche tu. E se il fenomeno del gaming è sempre stato ampiamente ascritto alla popolazione maschile, stiamo assistendo a un’inversione di tendenza. Inutile dire che la percentuale di analfabetismo videoludico ha storicamente visto un picco se prendiamo in esame la sola popolazione femminile.
8. Senso di alternatività. La sensazione di discostarsi dalla massa è una leva potente e la si può vedere agire in ogni ambito in cui esistono degli haters, e Pokémon Go ne ha molti. Come gli One Direction, la Lega Nord e il fascismo. Dal prendere una posizione in parte detestabile si ottiene la sensazione gradevolissima di essere rivoluzionari e con essa il petto si gonfia di orgoglio e senso di appartenenza (Sì, i neofascisti si sentono dei rivoluzionari fuori dal coro).
 
Qualche conclusione.
Non mi sento di giudicare negativamente chi gioca a Pokémon Go. Si tratta in ogni caso di un fenomeno vastissimo ed innovativo e di un successo inaudito a livello di game design, apre le porte a rosei futuri per quanto riguarda la realtà aumentata che possono far leccare i baffi anche a core gamers come il sottoscritto, per non parlare delle potenzialità che tecnologie del genere possono esprimere in combinazione con Oculus Rift al di là del mondo videoludico.
Tuttavia.
Tuttavia un voto per Lega Nord è un fallimento dell’istruzione italiana del quale siamo tutti colpevoli.
Tuttavia ogni copia del libro di Corona venduto grida vendetta al cielo.
Tuttavia ogni sold out di Vacanze a Stocazzo è un insulto all’italiano medio.
Tuttavia ogni download di Pokémon Go è un manifesto di ignoranza videoludica.
Tu che ci giochi e non hai mai nemmeno pensato che esiste un modo intelligente di giocare sei complice di un sistema che ti vuole stupido e che -vedrai- troverà -e ha già trovato con altri mille titoli- il modo di lucrare su questa pericolosamente sottovalutata ignoranza.
Certo, alla fine parlo sempre della stessa cosa che vi fa storcere il naso: dare ai videogiochi lo stesso valore che si dà ad ogni altra forma di intrattenimento (digrignate pure i denti, aggiungerò: ad ogni altra forma d’arte). Perché avere una cultura cinematografica, un gusto, un’opinione strutturata in termini di letteratura per voi sarà sempre più importante che averne un equivalente videoludico, eppure mentre siete abbastanza in gamba da saltare a piè pari il nuovo cinepanettone e ridete amaramente di chi spende per leggersi Fabbrizzio, vi fate intortare a suon di pokéball dal peggior blockbuster in circolazione.
La cultura generale si è evoluta ed espansa, e i retrogradi che non sanno accorgersene sono proprio i pokétrainers.
Poi certo, c’è anche chi un cinepanettone se lo guarda per amore del trash. Cosi, ironicamente.. Ci sta. Però mi aspetto che siano le stesse persone che si fanno le maratone di Studio Ghibli, perdio.
In sostanza, non serve essere un core gamer per scegliere intelligentemente un titolo da giocare, come non serve essere un cinefilo per saperne qualcosa di Miyazaki, come non serve una laurea umanistica per aver letto un po’ di gente che finisce in -ski o -skij. Basta applicare lo spirito critico che utilizziamo efficientemente per molti aspetti della nostra vita anche a questo, non meno importante.
E comunque, si sa che chi gioca a Pokémon Go non scopa. Vedi tu.
 
Nicola ‘Jay’ Ferrajolo