PSYCHOPATIC ROMANTICS – Intervista alla band
by tuttorock
18 Marzo 2016
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Avreste mai pensato di abbinare l’appellativo “psicopatici” a quelle anime gentili che sono i “romantici”?
Beh…se questa domanda vi sembra strana è necessario leggere l’intervista qui di seguito.
Il nome della band che vi presentiamo è infatti “Psychopatic Romantics”.
Che ne dite di saperne di più?
Ciao ragazzi! “Psychopathic Romantics”, letteralmente “romantici psicopatici”…cosa significa esattamente? E’ un nome casuale oppure nasce da qualche aneddoto simpatico?
Ciao a voi e a tutti i vostri lettori!
A dirla tutta sono vere entrambe le cose: il nostro è di certo un nome casuale, e lo è proprio perché nasce da un aneddoto simpatico. Nel 2005 avevamo messo su i nostri primi brani inediti, abbastanza per un live, e ci trovavamo a Roma in cerca di location dove poter suonare. Tutti ci chiedevano, giustamente, “e voi che genere fate?”. Ma a noi la domanda non piaceva tanto, all’epoca avremmo voluto soltanto suonare, senza dover dare troppe spiegazioni e purtroppo non avevamo ancora demo al seguito, quindi ci inventammo questa risposta, cercando di stuzzicare la curiosità di promoter e gestori di club: “facciamo psychedelic-romantic-rock”. Funzionò! Dopo poco cambiammo ‘psychedelic’ in ‘psychopathic’ perché ci piaceva l’idea di accostare immagini contrapposte, creando una specie di ossimoro della personalità, e così è diventato il nostro nome. Ci era sembrato fin da subito un nome intrigante, anche se forse un po’ troppo intricato, l’abbiamo conservato perché rispecchiava un po’ quelle stridenti contraddizioni che ci sono in noi quattro singolarmente e nel gruppo ma anche, in generale, un po’ in tutti noi.
Mario, tu sei nato a Caserta, ma ti sei spostato in America, nel “Connecticut”, per completare la tua formazione. In che modo il tuo luogo di nascita e -per contro- il luogo in cui hai maturato le tue esperienze hanno influenzato la tua musica?
In realtà non sono partito volontariamente per formarmi, ero solo un bambino di sette anni e non ho potuto fare altro che seguire la mia famiglia che si spostava oltreoceano alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Fosse stato per me sarei rimasto volentieri al mio piccolo paese, l’ho vissuta come una costrizione a cui non potermi sottrarre, quindi di certo la prima componente di questa esperienza che ha influenzato la mia musica – e non solo – direi che è l’essere incazzato. Il Connecticut è uno Stato piuttosto ricco, sono cresciuto in una località considerata “la capitale delle assicurazioni”, in cui le persone sono molto dedite al lavoro e al denaro, ma poco inclini alla ricerca culturale e musicale “ordinaria” e ancor meno a quella che potremmo definire “alternativa”. Perciò non è stato difficile trovare da adolescente altri ragazzi incazzati come me e condividere con loro la passione per la musica, mettendo su le prime band, punk e moleste al punto giusto. Bisogna sfatare quest’immagine idealizzata dell’America delle grandi opportunità culturali: un grande Paese esprime certamente molta arte e cultura, ma in proporzione, produce anche grande ignoranza. Di certo coesistono molteplici realtà, e questo, specie per me che ne venivo da una totalmente differente come quella del paesino meridionale italiano, non può che aprire la mente al confronto e alla conoscenza. Dopo oltre vent’anni mi sono ritrasferito in Italia, mosso da quel mai sopito desiderio di tornare che mi portavo fin da bambino. Stavolta ero io che avevo un’immagine idealizzata sbagliata di quello che doveva essere il mio Paese, il Belpaese, casa mia. Sono passato dall’essere incazzato di quando sono partito all’essere deluso di quando sono tornato.
Tra psichedelia ed elettronica, in che modo si è evoluta la vostra ricerca musicale dal vostro primo lavoro autoprodotto fino a giungere ad oggi?
Nei primi lavori prevaleva un sound d’impatto, ruvido, a tratti psichedelico, teso a destrutturare la forma-canzone, poi la naturale evoluzione ci ha portato ad assecondare gradualmente le mie inclinazioni cantautorali. Inizialmente suonavo la batteria e cantavo, poi ho scelto di accompagnarmi suonando la chitarra acustica e ne è risultato un sound più maturo e rassicurante, ingentilito anche da strutture e ritmiche più regolari. La ricerca però non è ancora finita, già col nuovo materiale probabilmente stiamo trovando un nuovo (ennesimo) equilibrio.
“Bread and Circuses” è il titolo del vostro ultimo album. Spiegateci un po’ questo titolo.
Certo, intanto vi diciamo che è uscito con la Freakhouse Records a metà del 2015, e si può ascoltare e scaricare gratis (https://freakhouserecords.bandcamp.com). “Bread and Circuses” (Pane e Circo) è la celebre strategia del consenso basata sul principio che per tener soggiogato un popolo senza grandi preoccupazioni basta che questo abbia giusto un po’ di pane in tavola e una buona dose di distrazioni e intrattenimento. E’ un concetto che rimanda addirittura alla letteratura latina, vecchio come il cucco, eppure stupisce quanto sia sempre incredibilmente attuale.
Quale tra i vostri brani ritenete sia quello che maggiormente vi somiglia in assoluto?
Forse proprio la title-track del disco ‘Bread and Circuses’ perché rappresenta il nuovo corso, è l’emblema dell’evoluzione del nostro sound: addirittura qui l’idea di ‘regolarità’ nella struttura del pezzo è scandita dal beat generato da una vecchia drum machine! E poi ci ha dato e ci sta dando molte soddisfazioni, piace e lo percepiamo. Non solo: anche nel testo ci riconosciamo, perché tratta un tema ricorrente nella nostra produzione. C’è anche un bellissimo videoclip (realizzato da Eliano Imperato, Raffaele Cortile e Vincenzo Capasso) che accompagna il brano
Avete modelli di riferimento?
Certo. Frank Zappa, non tanto e non solo musicalmente in senso stretto, quanto per l’attitudine dissacrante, l’eclettismo e per una questione di grande stima e ammirazione per molti degli aneddoti che lo riguardano, lo reputiamo un genio (anche se Vincenzo si dissocia!).
Musicalmente, per le nostre caratteristiche ci rivolgiamo a quegli artisti il cui timbro di voce risulta caldo e profondo, e allo stesso tempo ruvido e segnato dal fumo. Per capirci, gente come Tom Waits e Mark Lanegan, o come Nick Cave e Johnny Cash (del quale abbiamo registrato una nostra versione della celebre Folsom Prison Blues, pubblicata su ‘Bread and Circuses’).
In realtà non solo loro: ci piace non essere mai uguali a noi stessi, ci piace confrontarci con più cose, con diversi generi, e mischiarli e suonarli a modo nostro, perciò ci piacciono molto quegli artisti che hanno fatto del reinventarsi di disco in disco il loro marchio di fabbrica: su tutti, sicuramente Beck e The Flaming Lips.
A tal proposito, dove non riusciamo ad arrivare noi direttamente, ci arriviamo grazie a contributi e collaborazioni di livello. Su ‘Bread and Circuses’ il leader degli Ulan Bator, Amaury Cambuzat ha partecipato con un piccolo cameo al brano ‘H.ash’, mentre il rapper napoletano Rob.Shamantide della Ganjafarm Cru ha impreziosito il brano ‘Up and Down’.
Quanta importanza date all’immagine?
Gli diamo il giusto valore. Non ci piace esagerare nell’apparire, né ci piacciono grossi effetti speciali. Citando James Senese: “A te te piace a’ musica o o’ fumm?!”, ecco noi scegliamo ancora la musica.
Cosa pensate dei talent-show?
Sono un ottimo business per le case di produzione televisive.
La musica concretamente ne guadagna molto poco.
Ciò che attrae il pubblico verso questi programmi, dal successo innegabile, non è l’interesse per il mondo della musica, è la curiosità. Ciò che interessa davvero è conoscere le storie personali dei concorrenti, vedere come affrontano e gestiscono le emozioni, come reagiscono alle critiche e alla competizione. È appagata quell’insana attitudine al voyerismo, la stessa che induce a star dietro alle improbabili trame delle soap opera o a quelle più accattivanti delle serie tv.
E poi gli artisti si ritrovano di colpo con un cospicuo seguito. Merito della visibilità concessa? Mmm..difficile che si tratti di un proprio pubblico reale, piuttosto è il pubblico del programma stesso e solitamente è un pubblico ‘a tempo’, che nella migliore delle ipotesi dura fino all’edizione successiva.
Grazie ragazzi!!! Rock on!!!
a cura di Dafne D’Angelo
Beh…se questa domanda vi sembra strana è necessario leggere l’intervista qui di seguito.
Il nome della band che vi presentiamo è infatti “Psychopatic Romantics”.
Che ne dite di saperne di più?
Ciao ragazzi! “Psychopathic Romantics”, letteralmente “romantici psicopatici”…cosa significa esattamente? E’ un nome casuale oppure nasce da qualche aneddoto simpatico?
Ciao a voi e a tutti i vostri lettori!
A dirla tutta sono vere entrambe le cose: il nostro è di certo un nome casuale, e lo è proprio perché nasce da un aneddoto simpatico. Nel 2005 avevamo messo su i nostri primi brani inediti, abbastanza per un live, e ci trovavamo a Roma in cerca di location dove poter suonare. Tutti ci chiedevano, giustamente, “e voi che genere fate?”. Ma a noi la domanda non piaceva tanto, all’epoca avremmo voluto soltanto suonare, senza dover dare troppe spiegazioni e purtroppo non avevamo ancora demo al seguito, quindi ci inventammo questa risposta, cercando di stuzzicare la curiosità di promoter e gestori di club: “facciamo psychedelic-romantic-rock”. Funzionò! Dopo poco cambiammo ‘psychedelic’ in ‘psychopathic’ perché ci piaceva l’idea di accostare immagini contrapposte, creando una specie di ossimoro della personalità, e così è diventato il nostro nome. Ci era sembrato fin da subito un nome intrigante, anche se forse un po’ troppo intricato, l’abbiamo conservato perché rispecchiava un po’ quelle stridenti contraddizioni che ci sono in noi quattro singolarmente e nel gruppo ma anche, in generale, un po’ in tutti noi.
Mario, tu sei nato a Caserta, ma ti sei spostato in America, nel “Connecticut”, per completare la tua formazione. In che modo il tuo luogo di nascita e -per contro- il luogo in cui hai maturato le tue esperienze hanno influenzato la tua musica?
In realtà non sono partito volontariamente per formarmi, ero solo un bambino di sette anni e non ho potuto fare altro che seguire la mia famiglia che si spostava oltreoceano alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Fosse stato per me sarei rimasto volentieri al mio piccolo paese, l’ho vissuta come una costrizione a cui non potermi sottrarre, quindi di certo la prima componente di questa esperienza che ha influenzato la mia musica – e non solo – direi che è l’essere incazzato. Il Connecticut è uno Stato piuttosto ricco, sono cresciuto in una località considerata “la capitale delle assicurazioni”, in cui le persone sono molto dedite al lavoro e al denaro, ma poco inclini alla ricerca culturale e musicale “ordinaria” e ancor meno a quella che potremmo definire “alternativa”. Perciò non è stato difficile trovare da adolescente altri ragazzi incazzati come me e condividere con loro la passione per la musica, mettendo su le prime band, punk e moleste al punto giusto. Bisogna sfatare quest’immagine idealizzata dell’America delle grandi opportunità culturali: un grande Paese esprime certamente molta arte e cultura, ma in proporzione, produce anche grande ignoranza. Di certo coesistono molteplici realtà, e questo, specie per me che ne venivo da una totalmente differente come quella del paesino meridionale italiano, non può che aprire la mente al confronto e alla conoscenza. Dopo oltre vent’anni mi sono ritrasferito in Italia, mosso da quel mai sopito desiderio di tornare che mi portavo fin da bambino. Stavolta ero io che avevo un’immagine idealizzata sbagliata di quello che doveva essere il mio Paese, il Belpaese, casa mia. Sono passato dall’essere incazzato di quando sono partito all’essere deluso di quando sono tornato.
Tra psichedelia ed elettronica, in che modo si è evoluta la vostra ricerca musicale dal vostro primo lavoro autoprodotto fino a giungere ad oggi?
Nei primi lavori prevaleva un sound d’impatto, ruvido, a tratti psichedelico, teso a destrutturare la forma-canzone, poi la naturale evoluzione ci ha portato ad assecondare gradualmente le mie inclinazioni cantautorali. Inizialmente suonavo la batteria e cantavo, poi ho scelto di accompagnarmi suonando la chitarra acustica e ne è risultato un sound più maturo e rassicurante, ingentilito anche da strutture e ritmiche più regolari. La ricerca però non è ancora finita, già col nuovo materiale probabilmente stiamo trovando un nuovo (ennesimo) equilibrio.
“Bread and Circuses” è il titolo del vostro ultimo album. Spiegateci un po’ questo titolo.
Certo, intanto vi diciamo che è uscito con la Freakhouse Records a metà del 2015, e si può ascoltare e scaricare gratis (https://freakhouserecords.bandcamp.com). “Bread and Circuses” (Pane e Circo) è la celebre strategia del consenso basata sul principio che per tener soggiogato un popolo senza grandi preoccupazioni basta che questo abbia giusto un po’ di pane in tavola e una buona dose di distrazioni e intrattenimento. E’ un concetto che rimanda addirittura alla letteratura latina, vecchio come il cucco, eppure stupisce quanto sia sempre incredibilmente attuale.
Quale tra i vostri brani ritenete sia quello che maggiormente vi somiglia in assoluto?
Forse proprio la title-track del disco ‘Bread and Circuses’ perché rappresenta il nuovo corso, è l’emblema dell’evoluzione del nostro sound: addirittura qui l’idea di ‘regolarità’ nella struttura del pezzo è scandita dal beat generato da una vecchia drum machine! E poi ci ha dato e ci sta dando molte soddisfazioni, piace e lo percepiamo. Non solo: anche nel testo ci riconosciamo, perché tratta un tema ricorrente nella nostra produzione. C’è anche un bellissimo videoclip (realizzato da Eliano Imperato, Raffaele Cortile e Vincenzo Capasso) che accompagna il brano
Avete modelli di riferimento?
Certo. Frank Zappa, non tanto e non solo musicalmente in senso stretto, quanto per l’attitudine dissacrante, l’eclettismo e per una questione di grande stima e ammirazione per molti degli aneddoti che lo riguardano, lo reputiamo un genio (anche se Vincenzo si dissocia!).
Musicalmente, per le nostre caratteristiche ci rivolgiamo a quegli artisti il cui timbro di voce risulta caldo e profondo, e allo stesso tempo ruvido e segnato dal fumo. Per capirci, gente come Tom Waits e Mark Lanegan, o come Nick Cave e Johnny Cash (del quale abbiamo registrato una nostra versione della celebre Folsom Prison Blues, pubblicata su ‘Bread and Circuses’).
In realtà non solo loro: ci piace non essere mai uguali a noi stessi, ci piace confrontarci con più cose, con diversi generi, e mischiarli e suonarli a modo nostro, perciò ci piacciono molto quegli artisti che hanno fatto del reinventarsi di disco in disco il loro marchio di fabbrica: su tutti, sicuramente Beck e The Flaming Lips.
A tal proposito, dove non riusciamo ad arrivare noi direttamente, ci arriviamo grazie a contributi e collaborazioni di livello. Su ‘Bread and Circuses’ il leader degli Ulan Bator, Amaury Cambuzat ha partecipato con un piccolo cameo al brano ‘H.ash’, mentre il rapper napoletano Rob.Shamantide della Ganjafarm Cru ha impreziosito il brano ‘Up and Down’.
Quanta importanza date all’immagine?
Gli diamo il giusto valore. Non ci piace esagerare nell’apparire, né ci piacciono grossi effetti speciali. Citando James Senese: “A te te piace a’ musica o o’ fumm?!”, ecco noi scegliamo ancora la musica.
Cosa pensate dei talent-show?
Sono un ottimo business per le case di produzione televisive.
La musica concretamente ne guadagna molto poco.
Ciò che attrae il pubblico verso questi programmi, dal successo innegabile, non è l’interesse per il mondo della musica, è la curiosità. Ciò che interessa davvero è conoscere le storie personali dei concorrenti, vedere come affrontano e gestiscono le emozioni, come reagiscono alle critiche e alla competizione. È appagata quell’insana attitudine al voyerismo, la stessa che induce a star dietro alle improbabili trame delle soap opera o a quelle più accattivanti delle serie tv.
E poi gli artisti si ritrovano di colpo con un cospicuo seguito. Merito della visibilità concessa? Mmm..difficile che si tratti di un proprio pubblico reale, piuttosto è il pubblico del programma stesso e solitamente è un pubblico ‘a tempo’, che nella migliore delle ipotesi dura fino all’edizione successiva.
Grazie ragazzi!!! Rock on!!!
a cura di Dafne D’Angelo
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