Aubrey “Po” Powell Intervista a tutto tondo in occasione della mostra:“Pink Floyd: …
Aubrey “Po” Powell
Intervista in occasione della mostra “The Pink Floyd exhibition: their mortal remains” a cura di Elena Arzani
Lei ed i Pink Floyd siete amici fin dall’inizio della carriera. Credo sia corretto affermare che nessuno li conosce meglio di lei, dato che la band si è scarsamente concessa al pubblico negli anni. Immagino pertanto, che siano stati un compito ed una responsabilità difficile selezionare i più interessanti progetti, nonché reperti dei Pink Floyd. Che tipo di criterio ed ispirazione ha seguito?
Conosco i Pink Floyd da quando avevo quindici anni, amico stretto di David Gilmour e Syd Barrett in particolare a Cambridge, quando eravamo giovani e frequentavamo la scuola. Quando ci siamo trasferiti tutti a Londra negli anni ’60, abbiamo mantenuto la nostra amicizia, ho condiviso un appartamento insieme a Syd e Storm, in società si frequentavano le stesse persone. Furono formati i Pink Floyd, che conosco per queste ragioni molto intimamente sin dall’inizio, in aggiunta al fatto di aver lavorato per loro nel corso degli anni alle copertine degli album, ai film e cose del genere. È un dato di fatto che io conosca più o meno la loro storia, così come la serie di grandi spettacoli ed i progetti a cui hanno partecipato, nonché le attrezzature che hanno usato e via dicendo.
Quando abbiamo deciso di organizzare la mostra – premesso che nel 2008 a Parigi ebbe luogo quella antecedente e di grande successo realizzata da Storm Thorgerson, mio partner in Hipgnosis, ma nonostante l’intenzione di riproporla altrove, per diversi motivi il progetto non si concretizzò e Storm morì nel 2013 – ci fu un incontro con tutti presenti, in cui ad un’unanimità la band disse: “bene, ci piacerebbe organizzare questa mostra, te ne occuperai tu?” |
Ed a malincuore ammetto che occupandomi di film, non volevo essere coinvolto in un progetto così grande, che richiede così tanto tempo, ma ho risposto: “ok”. Iniziato questo progetto, la prima cosa che ho deciso di fare è stata la stesura di un piano d’azione, l’idea era di partire in ordine cronologico e volevo che diventasse per il pubblico un’esperienza simile a quella di “Alice nel paese delle meraviglie”. Ho disegnato il progetto su un pezzo di carta e la prima bozza per coincidenza è ciò che vedi ora a Roma. È davvero strano, è quasi identica. Reclutare una squadra di professionisti era la prima cosa da fare e sapevo chi volevo coinvolgere: Stufish, uno studio designer di architettura, che ha lavorato con Roger Waters e David Gilmour, progettato The Wall e firmato spettacoli teatrali; volevo i Conservators, molto bravi e professionali nel gestire le vecchie fotografie, poster, oggetti vari, che necessitavano di essere maneggiati correttamente, tutto questo gestendo il problema dell’umidità. Desideravo avere in squadra Patrick Woodroffe, un designer di luci, molto famoso per i progetti realizzati per i Rolling Stones, ad esempio, od i Monthy Python, esperienza che abbiamo condiviso insieme in precedenza. Con calma ho quindi selezionato il mio team, all’interno del quale desideravo avvalermi, in qualità di co-curatrice, dell’esperienza Paula Webb e della sua buona conoscenza di svariati oggetti della band, maturata durante la mostra di Parigi con Storm. Successivamente mi sono recato nel magazzino dei Pink Floyd. Hanno questo enorme spazio fuori Londra, che è pieno di vecchi maiali, centinaia di attrezzature usate per allestire tutti i palcoscenici. Se facciamo un passo indietro, pensando sia alla fine degli anni ’70, che a quella degli anni ’80, il palco era enorme – intendo assolutamente enorme – e gli oggetti gonfiabili che utilizzavano per colmarlo, come l’uomo in abito a strisce, che ora si trova a Roma, erano tutti custoditi in quelle scatole.
Giacevano là da oltre 30 anni, alcuni da più di 35. Abbiamo iniziato ad aprire tutte quelle scatole, per vedere cosa contenessero, ed è stato incredibile scoprire come alcune cose fossero state completamente distrutte dal tempo ed altre al contrario fossero ancora impeccabili, come l’uomo con l’abito a strisce od il Maestro di The Wall, che abbiamo semplicemente gonfiato e voilà il gioco era fatto. Incredibile integri 30 anni dopo, così come il frigorifero, la televisione, che sono tutti originali in condizioni assolutamente perfette. Sono anche andato da Nick Mason, il batterista, per visionare il suo immenso archivio di fotografie e poster degli anni dei Pink Floyd. Quindi ho avuto accesso a tutti i generi di cose. Roger Waters mi ha invitato a raggiungerlo a casa sua, dove ha raccolto un sacco di materiale. Là ho trovato tutti i testi scritti originali di The Wall e cose simili. |
È stato semplicemente straordinario trovarsi con alcuni amici e vecchie fidanzate della band o ex mogli, tutti coinvolti nel cercare di trovare insieme le cose più interessanti.Sapevo di voler dare alla mostra un ordine cronologico, in altre parole iniziare dall’inizio e concludere fino alla fine, ossia ai giorni nostri. Ho impiegato 3 anni per organizzare tutte le cose illustrate, contemporaneamente alle quali ho dovuto progettare una mostra, sapendo di non esser sicuro di dove sarebbe stata ospitata. Originariamente si pensava di inaugurarla a Milano, ma il progetto è sfumato con rammarico e profondo sconforto, perché mancavano 6 settimane al completamento. A quel punto mi sono recato subito al V&A di Londra, in cui lavorano degli amici, che immaginavo sarebbero stati interessati.
Ho varcato la soglia ed esclamato: “Ho una mostra completa per voi! È tutto pronto”
“La vogliamo ed intendiamo inaugurarla tra18 mesi” è stata la loro risposta ed io detto: ”Ok!”
Ed è così che è nata la mostra a Londra, sotto il segno di una fantastica “serendipità” come diciamo da queste parti. È stata una fantastica opportunità, che si è concretizzata proprio in questo modo – davvero. Ma la cosa più importante è che i Pink Floyd non hanno interferito affatto con il mio design, con le mie decisioni o con quello che volevo fare. Hanno semplicemente detto: “se riesci a realizzarlo: è fantastico!” e questo è stato eccezionale trattandosi di loro, perché sono notoriamente attenti, puntigliosi, critici ed è complicato lavorare insieme, ma sono stato fortunato. Dato che David Gilmour era in tournée e stava registrando un disco, allo stesso modo di Roger Waters, i due non avevano tempo per concentrarsi su altro ed io volavo ovunque si trovassero per parlargli, a Chicago per vedere Roger e New York nel caso di David, portavo con me questo grande libro, che ho chiamato la Bibbia, con tutti i dettagli tecnici ed architettonici, tutti le planimetrie, i progetti disegnati, le fotografie di tutto ciò che volevo realizzare, tutto illustrato, tutto. Era un plico di enorme spessore, perché intendevo mostrarglielo dicendo: “guarda questo è quello che sto facendo”, ed aveva un aspetto molto professionale, inoltre potevano assorbirlo nello spazio di un paio d’ore (sorride), e l’unica cosa che loro hanno detto, è stata: “Ok, se puoi farlo, fallo!” Sono davvero fortunato, che non abbiano voluto essere maggiormente coinvolti e che si siano fidati di me, apprezzando il mio operato. Per fortuna direi che tutto sommato: sembra piuttosto buono!
Ho visitato sia la mostra a Londra, che questa a Roma. Sono diverse in un certo senso, al V&A lo spazio era ampio, mentre al MACRO si ha una maggiore sensazione di full immersion. Le mostre sono entrambe fantastiche.
Personalmente preferisco la mostra di Roma, perché ho avuto a disposizione uno spazio con un soffitto molto alto, che mi ha permesso di rendere The Wall più impattante con il maiale all’interno ed altri dettagli simili, che in qualche modo hanno funzionato meglio. Il V&A è un vecchio edificio vittoriano, per cui devi usare i corridoi e tutte le stanze sono piccole. Ho dovuto costruire la scenografia girandoci intorno, il che è molto complicato. E in realtà penso che, il fatto che la mostra di Roma sia leggermente più piccola, la renda più semplice da assorbire, mentre quella del V&A era troppo grande, occorrevano circa 2 ore e mezza per visitarla, l’attenzione della gente si disperdeva. Una mostra generalmente non deve richiedere più di 1 ora e mezza al visitatore e questo è un dato di fatto.
Parlando del titolo della mostra, so che inizialmente “The great gig in the sky” era stata chiamata “The mortality sequence”.
Sì. No, il titolo non ha niente a che fare con quello. “Their mortal remains” deriva da una frase contenuta in un testo di The Wall. Cercavo un nome per la mostra ed ho chiesto aiuto a Roger, perché lui ha un grande talento con le parole ed i titoli. Immediatamente ha esclamato: “Che ne pensi di Their mortal remains?” ed ho pensato, che si trattasse di un titolo assolutamente brillante, perché è di questo che tratta la mostra in fondo, de “I loro resti mortali”. Ciò che rimane dei Pink Floyd, perché i Pink Floyd non esistono più realmente, voglio dire che esiste il nome, ma sfortunatamente non torneranno mai in scena, né in un tour.
Pensa che possa esistere una sorta di connessione con “The dark side of the moon” ed il concetto di piramide egizia? No, la gente ama immaginare ogni sorta di cosa, ma si tratta semplicemente di una citazione, che deriva dalla canzone “Nobody home” di The Wall. Una riga verso la fine, in cui si dice: “I’ve got a grand piano to prop up my mortal remains. (Ho un pianoforte a coda per sostenere i miei resti mortali)”.
Come ha affrontato i diversi periodi della carriera della band relativi all’era di Syd Barrett, quella di David Gilmour, la separazione di Roger Waters? Molti fans, ad esempio, ritengono che Syd Barrett sia l’elemento più iconico della band, quello che incarna i Pink Floyd. Temo di non essere d’accordo, mi spiace. |
Lui scriveva le canzoni, era il cantante principale, ha composto brani eccezionali e favole – se vogliamo – di stile molto inglese (influenzate da quello che veniva pubblicato in quel momento – Alice nel Paese delle Meraviglie, e così via). Non c’è alcun dubbio che sia stato incredibilmente inventivo, tuttavia il suo periodo con i Pink Floyd è stato molto breve e ad essere onesti – dal mio punto di vista personale – ha quasi distrutto la band. Il suo uso smodato di droghe lo ha portato a lasciare i Pink Floyd, che di conseguenza si sono trovati senza uno dei membri principali e senza qualcuno con cui rimpiazzarlo. Non avevano uno scrittore di canzoni, nessuno con cui continuare, ed in effetti è un miracolo che i Pink Floyd siano sopravvissuti. Quando David Gilmour si è unito alla band, ha salvato i Pink Floyd, pur non essendo un compositore di brani. Roger ha dovuto iniziare a scrivere, mentre David ha sostituito Syd alla chitarra. Quindi non concordo con i fans, che il periodo di Syd Barrett sia necessariamente quello migliore. Syd ha fatto partire il progetto Pink Floyd con alcune idee interessanti, ma poi una volta uscito, la band ha continuato la sua strada con David Gilmour ed ha prodotto un album come “The dark side of the moon”. Tutto questo non ha niente a che fare con Syd Barrett. Si deve invece alla voce di David Gilmour ed alla sua chitarra, che suona in modo incredibile, ed ai testi di Roger Waters. Se Syd Barrett fosse rimasto con la band, non credo che “The dark side of the moon”, avrebbe mai visto la luce, perché la sua nascita coincise con un cambiamento all’interno della band. In seguito, quando Roger lasciò la band, dopo “The final cut”, e David Gilmour decise di continuare, la band dovette cambiare completamente di nuovo. David possiede il nome dei Pink Floyd, insieme a Nick Mason, non ha un naturale dono come autore di canzoni, ma è un virtuoso della chitarra e senza alcun dubbio ha una bella voce, pertanto ha dovuto affidarsi ad altre persone per comporre i brani. “The division bell” è sicuramente il secondo miglior album della band, dopo “The dark side of the moon”, il successo, che ha riscosso con la sua versione di Pink Floyd negli anni successivi alla spaccatura, è fenomenale. In aggiunta al fatto, che sono ancora così incredibilmente popolari. Non sono d’accordo con l’opinione dei fans, che Syd Barrett fosse il fulcro dei Pink Floyd, li ha quasi distrutti, quindi non ho un’idea così simpatica come possono coltivar loro ed ero lì, l’ho visto con i miei occhi, ho visto tutto. Syd non era eccezionale, non era qualcuno da ammirare. Un sacco di gente lo idealizza, considerandolo come una sorta di Dio. Lui non era così. Era solo un ragazzo molto gentile, troppo sensibile e fragile per il rigore del mondo della musica. Voleva solo essere un pittore, non voleva essere una popstar o cose del genere. Quindi non ho la loro stessa visione, temo, e probabilmente i fans dei Pink Floyd saranno turbati da questo, ma conosco la realtà dei fatti.
Senza menzionare la copertina di “The Dark Side of the Moon” celebre in tutto il mondo, tra le immagini degli album dei Pink Floyd, tre di loro sono particolarmente interessanti dal punto di vista del loro processo di lavoro. “A Saurceful of Secrets”, “Ummagumma” e “Atom heart mother”. I primi due, contrariamente ai tempi attuali, erano completamente artigianali, non c’era photoshop nè grafica digitale di sorta. L’ultimo invece, con il suo layout controcorrente e minimalista, ha superato i limiti e confini imposti dall’etichetta discografica. Come è nata la copertina di Atom Heart Mother? Hipgnosis, la compagnia di design che fondai insieme a Storm Thorgerson, progettò tutto per gli amici Pink Floyd. Erano molto gentili con noi ed avevamo “carta bianca”, potevamo permetterci di dar vita ad idee che amavamo, e ovviamente essendo amici, l’affinità di pensiero era molto alta, tutti sintonizzati sullo stesso “livello surreale”, ed il tipo di libri, film, dipinti, poesie, che ispiravano la nostra crescita personale, esprimevano la stessa gamma di riflessioni. Salvador Dalì, Magritte, Ginzburg, Curzon, il poeta americano, i libri per bambini, i fumetti Marvel, c’era una naturale sinergia tra di noi e questo è molto importante nel tuo gruppo dei pari, quando si crea la stessa affinità. Quindi la mucca, che personalmente considero la mia copertina preferita, più di “The dark side of the moon”, è nata perché quando ci hanno comunicato il titolo dell’album “Atom heart mother”, non avevamo assolutamente idea di cosa inventarci e Storm ed io eravamo seduti con alcuni nostri amici e John Blake, uno scultore americano, e gli stavamo raccontando quanto ci sentissimo bloccati. John ripeteva: “beh, fate qualcosa di molto ordinario. Qualcosa di molto, molto ordinario” e qualcuno ad un certo punto ha esclamato: “Che ne dite di una mucca?” Assolutamente spontaneo…
Quindi il giorno successivo Storm ed io siamo andati fuori Londra a bordo della nostra macchina. Abbiamo attraversato i campi a piedi, tutte quelle lande piene di mucche, e scattato molte fotografie, ma una in particolare ci ha colpito subito. Tornati in città, sviluppato il film e guardato l’immagine, l’abbiamo portata presso gli Abbey Road Studios, dove la band stava registrando. Mostrata la foto della mucca, tutti hanno immediatamente esortato: “è lei!”. “È incredibile, questa è Atom heart mother!” Ed il motivo è che si trattava di qualcosa assolutamente anti-sistema, così “anti società discografica”. Le etichette discografiche odiavano la Hipgnosis, ciò che volevano era solo l’immagine della band sulla copertina, con il nome scritto a caratteri cubitali. Non volevano nessuna delle nostre strane idee surrealiste. Non appena Roger Waters ha approvato la nostra foto della mucca, abbiamo aggiunto: “nessun nome, nessun titolo”, e lui ha detto: “sì”. Ricordo di aver camminato lungo Sunset Boulevard prima dell’uscita dell’album, c’era un cartellone enorme sul muro con la sola immagine della mucca, nessuna scritta, assolutamente nulla. E ricordo che la gente lo commentava, dicendo: “che cos’è, un nuovo libro? un film? un nuovo album? “. Naturalmente, prima della presentazione dell’album, un grande pannello è stato affiancato al poster della mucca, con tutti i dati come di consueto: “I Pink Floyd presentano oggi in Sunset street Atom heart mother”. E questo stesso fatto è accaduto sia a New York che a Londra. Suscitava un grande interesse, perché era un modo di pensare laterale, una diversa angolazione di pensiero. Era l’opposto della pubblicità, le persone erano attratte dalla sua stranezza. Sai, se progetti qualcosa di bizzarro, attiri le persone in modo assolutamente naturale. È come l’orinatoio di Duchamp, le persone ne restarono colpite a causa della sua stranezza. Cosa significa? Nulla. È solo una mucca, è Atom heart mother, ma per Pink Floyd è perfetta ed è la mia copertina preferita, che credo di amar tanto, proprio perchè è così oscura. È una vera “camera oscura”, ecco di cosa si tratta.
“Una buona idea è una buona idea” era il suo motto e quello di Storm Thorgerson, David Gilmour ha descritto Hipgnosis come arte stessa, il che significa che la qualità delle vostre idee e creazioni era lontana dalla logica del mercato. Oggi crede che si possa ancora realizzare qualcosa di simile? |
Si trattava di qualcosa di nuovo, pertanto il denaro scorreva copioso ovunque. Siamo stati fortunati, abbiamo lavorato per gruppi come i Led Zeppelin, Paul McCartney, Peter Frantom, i Genesis, Yes, tutte queste band leggendarie. Potevamo proporre loro qualsiasi idea ci venisse in mente. Per esempio, potevo dire: “Guarda, voglio andare in Australia a scattare questa fotografia.” – oppure – “Ho un’idea, voglio andare alle Hawaii “. E loro rispondevano semplicemente con un “si, vai, va bene”. Collaboravamo solo con le band, non lavoravamo mai per le case discografiche. Eravamo molto privilegiati, spesso considerati come una sorta di membro aggiuntivo della band, venivamo trattati nello stesso modo, frequentavamo il gruppo, alloggiavamo nello stesso hotel, volavamo insieme a bordo del loro aereo privato.
Una delle ragioni di tutto questo era che, visivamente a modo nostro, stavamo creando allo stesso modo della band con la musica. Loro producevano i suoni, noi le immagini. Le copertine degli album a quel tempo erano molto importanti per le compagnie discografiche, perché erano il ponte di comunicazione visiva tra la band ed il pubblico. Non c’erano VH1, Spotify, YouTube, solo poche riviste e giornali sulla musica, l’enfasi della comunicazione visiva della band con il suo pubblico, era posta sulla copertina dell’album. Dava un indizio importante, un’informazione sulla band ed il suo lavoro. Pertanto noi siamo stati molto fortunati, ma non c’è ragione per cui tutto questo non possa accadere di nuovo, così come non vi è motivo alcuno per cui le persone non possano avere idee interessanti. Ci sono sempre proposte originali in campo visivo e musicale. Sarà semplicemente diverso, ma non vedo perché tutto questo non possa riaccadere. Una copertina apribile era davvero una grande tela, per la quale abbiamo avuto a disposizione un sacco di soldi da spendere, dato che i nostri budget erano illimitati, quando abbiamo proposto le nostre creazioni con Hipgnosis. |
Oggigiorno le vendite dei dischi sono calate, le vendite dei DVD sparite, quelle dei CD finite, quindi il budget disponibile, per coloro che si occupano di grafica in ambito musicale, è molto esiguo, ma sono sicuro che la situazione cambierà ed accadrà qualcos’altro. Immagini e musica saranno sempre legate insieme. Quindi sono certo, che nell’era digitale ci saranno altri modi di creare spazi in cui proporre la grafica legata alla musica, per esempio ipotizziamo che Beyoncé voglia produrre un album con 16 brani, per ciascuna canzone verrà creato un video per il pubblico. Le fotografie saranno richieste e continuano ad esserlo tutt’ora. Ogni volta che osservo i nuovi album pubblicati, noto idee interessanti. Penso che il vero problema dell’industria musicale in questo momento sia la mancanza di denaro, la mancanza di finanziamenti. Quindi, a meno che una band non sia molto affermata, come Madonna, Pink Floyd o Beyoncé o vi sia qualcuno con un budget illimitato da spendere per progetti visivi, è difficile per un giovane aspirante artista grafico o fotografo entrare nel business della musica. E ovviamente ci sono così tante persone che se ne occupano al momento, basta pensare che chiunque può scattare una foto e viaggiare, mentre nessuno poteva farlo negli anni ’60. Al tempo di Hipgnosis c’erano solo 20 persone al mondo in questo business e ci conoscevamo tutti.
Ma ci saranno sempre immagini legate alla musica. Sempre!
a cura di Elena Arzani
Autore Elena Arzani |
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Elena Arzani è Docente presso la University of the Arts London di Londra. Fotografa e Consulente in marketing, comunicazione e social media management, segue artisti e progetti del settore culturale e moda e musica. Master di Laurea in Design Studies, presso il Central Saint Martin's di Londra, ha completato la sua formazione tecnica al Sotheby's Institute of Arts di NY ed alla 24Ore Business Schoold di Roma. Tra le sue collaborazioni, illustri aziende ed iconiche personalità della cultura contemporanea, da Giorgio Armani, Tina Turner, Aubrey Powell, a Guerlain, Fondazione Prada, e molti altri. Elena Arzani, Art Director di Tuttorock - elena.arzani@tuttorock.com