Intervista ad Alessandro Sipolo
by tuttorock
26 Gennaio 2019
0
Shares
E’ uscito venerdì 25 gennaio 2019, il terzo album del cantautore bresciano, nativo di Provaglio di Iseo e classe 1986, Alessandro Sipolo. Questo ultimo lavoro, prodotto da Alessandro in collaborazione con Alberto Venturini, contiene 10 nuove tracce e si intitola Un altro equilibrio (LaPop/Freecom). La prima data del tour, che toccherà quasi tutta l’Italia, è fissata per il 1 febbraio in quella che è ormai una seconda casa per Sipolo: la Latteria Molloy di Brescia.
Ho avuto il piacere di trascorrere una piacevolissima ora in compagnia di Alessandro e di intervistarlo in merito a questa imminente pubblicazione. Ecco, nero su bianco, le mie domande e le sue ovviamente eretiche e poetiche risposte.
Ciao Alessandro, era il 2013 l’anno in cui usciva il tuo primo album, Eppur bisogna andare, prodotto da Giorgio Cordini, che ti è valso il premio Beppe Gentile 2014 come migliore album d’esordio. Nel novembre 2015 è uscito Eresie, un concept album prodotto con la collaborazione di Giorgio Cordini e Taketo Goahara, al quale hanno collaborato numerosi grandi artisti. Eresie è rientrato tra i 50 finalisti per la Targa Tenco 2016 come miglior disco assoluto, e il pezzo Comuñao Liberação tra i 50 brani finalisti perla categoria miglior canzone. Nel 2017 con Cresceremo anche noi sei stato tra i 4 vincitori del premio Musicultura in diretta su Rai1. Ti saresti aspettato un così grande consenso di critica e di pubblico?
Grande consenso è un concetto sempre relativo. Indubbiamente per essere un cantautore che fa della musica che non può essere considerata mainstream, sono sicuramente molto contento per tutto quanto è accaduto intorno ai miei due album precedenti. Il primo è stato completamente autoprodotto e ai tempi non avevo nemmeno la consapevolezza di cosa volesse dire promuovere un disco ed ha fatto da solo la sua strada e mi ha dato numerose soddisfazioni. Quando ho invece inciso Eresie, il secondo album, ero un pochino più consapevole di tutte le dinamiche che stanno intorno all’uscita di un album. Il tour è stato davvero un bellissimo momento della mia vita.
Ti avevo intervistato poco dopo la pubblicazione di Eresie e ti eri detto estremamente soddisfatto, molto contento del tuo secondo album, delle tracce, degli arrangiamenti e di tutto il lavoro di limatura di ogni brano che hai svolto avvalendoti di importanti collaboratori, alcuni dei quali ti hanno affiancato anche in questo ultimo disco. Puoi dirti altrettanto appagato da Un altro equilibrio?
Sì, sono molto contento di questo mio terzo album. Questa volta ho scelto di registrare il disco in un altro modo. Con Eresie c’era stato un lavoro di full immersion insieme a Giorgio Cordini e Taketo Gohara, che ci ha visti chiusi in diversi studi di registrazione per tre intensissime settimane. Stavolta invece ho lavorato principalmente fianco a fianco con Alberto Venturini, che è il batterista della mia band, ma è anche fonico e co-produttore, e abbiamo deciso di prendere le cose con più calma, allungando i tempi di registrazione in modo da lasciare sedimentare un po’ i brani ed è stata un’esperienza che mi è piaciuta molto e ho trovato estremamente proficua, perché ho potuto di volta in volta riascoltare con attenzione le tracce registrate e risentirle a distanza di qualche tempo, il che ha dato una nuova e più chiara messa a fuoco ai pezzi.
Hai avuto quindi un ruolo più incisivo e di primo piano nella fase di realizzazione di questo album?
In realtà mi sono riservato sempre l’ultima parola in ognuno dei miei album. I pezzi partono da mie idee, mie ipotesi. Poi però si tratta sempre di collaborazioni. Nel primo album con Giorgio Cordini, nel secondo con Giorgio e Taketo Gohara e in quest’ultima esperienza c’è stata una collaborazione continua e un confronto sempre aperto tra me e Alberto. In tutti e tre i casi mi sono trovato molto bene e mi sono sentito
a mio agio e libero di esprimermi. Diciamo che la base di partenza per ogni traccia sono sempre pezzi registrati con chitarra e voce, scritti da me, e poi iniziano il confronto e lo scambio di idee.
Li scrivi qui a casa tua solitamente?
Dipende. Non ho e non ho mai avuto un luogo fisso o privilegiato per la composizione.
Che e quanta importanza hanno il viaggio e l’incontro con altre culture nella tua scrittura?
Sicuramente hanno una grande influenza. Questo terzo disco è indubbiamente il più introspettivo dei tre ed è quello maggiormente influenzato dalla filosofia e dalla letteratura e quindi da viaggi non solo fisici, ma anche e soprattutto mentali. In questo album sono citate situazioni relative a quattro continenti, ma nonostante ciò è un album che definirei più intimista.
Sì, in effetti ascoltandolo con attenzione, si avverte che non è quasi distinguibile il confine tra il privato e il pubblico. I due piani sconfinano continuamente uno nell’altro. Come sono nate queste 10 tracce?
Questo terzo album è un disco che ho scritto in un periodo difficile – iniziato dopo una stagione pienamente soddisfacente della mia vita, come quella del tour di Eresie – una fase di bilanci e di cambiamenti politici, di accadimenti che io ho vissuto profondamente come frustrazioni dal punto di vista politico ed esistenziale.
Per la mia forma mentis quello che accade politicamente nel mondo che mi circonda si riflette direttamente nella mia vita, influenza il mio umore e le mie giornate. In questi ultimi anni sono successe cose che e mi hanno spesso portato e sentirmi frustrato nel mio desiderio di un mondo diverso, a considerare tutti i miei sforzi come vani e ciò mi ha spinto a ricercare la solitudine anche attraverso determinati tipi di viaggi.
Questi brani sono il riflesso di questo periodo e perciò sono meno festosi, più introspettivi per certi versi, ma mai rassegnati. Il pretesto della fotografia di mio padre a testa in giù nel suo vestito della domenica, in una posizione di equilibrio sovvertito che mostra la possibilità di far convivere le nostre “contraddizioni”, mi
ha dato modo di ragionare su ricerche di equilibri su vari fronti, dal pubblico al politico, dalla relazione privata a quella strettamente personale.
Dong Van, la seconda traccia di Un altro equilibrio parla di un viaggio nell’Ha Giang, sul confine tra il Vietnam e la Cina. Ci sei stato? La canzone parla di sassi che segnano il confine tra due culture, tra due mondi, tra popolazione autoctona e turisti. L’esperienza che descrivi è realmente accaduta?
Sì, ho vissuto questa bellissima esperienza di un viaggio da solo in Vietnam e poi da lì, in compagnia di un amico che ho incontrato e che avevo conosciuto in Perù, ci siamo spinti in moto verso nord fino al confine cinese. La scena che descrivo in modo velato nel brano è quella che mi ha dato l’input per scrivere questo
pezzo. Stavamo passando nelle campagne dell’Ha Giang, in un’atmosfera di estrema pace e tranquillità, e abbiamo visto in un campo una famiglia china a raccogliere riso. Ad un certo punto un bambino, che avrà avuto più o meno cinque anni, ci ha lanciato un sasso stizzito. È stata una scena molto forte, perché ha rotto per un momento quel mare di tranquillità agreste entro un ambiente che sembrava incontaminato dal turismo. Quel gesto ha marcato la nostra estraneità a quel posto, il nostro essere in un certo senso “fuori luogo”.
A proposito di estraneità, mi chiedo quanto la tua esperienza di lavoro nell’ambito del progetto S.P.R.A.R. (Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e i Rifugiati) contribuisca a dare forma alla tua musica e ai tuoi testi. Penso a tracce come Lo Sciamano bianco e a Tirailleurs.
Lo Sciamano bianco è un brano nato proprio nel contesto del progetto S.P.R.A.R. per il quale lavoro ed è una storia vera messa in versi e in musica, che mi è capitato di vivere direttamente. Parla del rapporto di rispetto reciproco e stima, nato tra un ragazzo maliano e uno psicologo mio amico, scomparso prematuramente e improvvisamente due anni fa all’età di 29 anni e che ho chiamato scherzosamente “lo sciamano bianco”. Grazie al percorso di cura intrapreso con lo psicologo, questo ragazzo maliano è riuscito a ritrovare un “equilibrio” e a seguire la sua strada. In un momento in cui questi progetti, questi tipi di tutela e di cura vengono messi sotto attacco e considerati “orpelli per buonisti”, in cui non si dà valore a questi servizi che seguono e integrano persone che poi si troveranno a vivere nel nostro paese, volevo ricordare questo mio amico e portare alla luce un sistema di cura e di aiuto che è stato smantellato.
Inoltre avevo voglia di parlare di Africa anche per ragioni prettamente politiche. L’idea di scrivere una canzone sui Tirailleurs deriva dalla mia profonda convinzione che determinate dinamiche si possano scardinare soprattutto a partire dalla conoscenza. Mi preme fare memoria e riconsiderare quali sono stati i processi che hanno portato ad un impoverimento culturale e materiale di determinate aree del mondo. Mi interessano più gli aspetti politici che quelli etici e caritativi. L’Europa ha fatto molto di buono nella storia per quanto riguarda la questione dei diritti, ha anche però devastato e saccheggiato numerose aree del mondo e ha fatto delle cose con le quali non abbiamo mai fatto del tutto i conti. A me le sterili banalizzazioni non bastano e ho cercato di portare alla luce storie molto significative, che con la loro testimonianza possano dire qualcosa di diverso rispetto a ciò che oggi viene affermato politicamente.
In questo album emergono molto di più i tuoi riferimenti letterari. Anche gli scrittori potrebbero essere definiti maestri, e a te che sei il portavoce delle eresie chiedo se condividi una affermazione di Massimo Recalcati secondo cui “siamo la somma dei maestri che abbiamo avuto, ma anche una deviazione eretica dei nostri maestri”. Nel momento in cui rievochi determinate atmosfere letterarie e le rivivifichi donando loro la tua cifra stilistica stai compiendo un gesto eretico di affermazione della tua singolarità prendendo
in consegna una eredità?
Per me scrivere è innanzitutto un’attività terapeutica, della quale sento la necessità e quando scelgo di mettere una canzone in un disco è perché voglio dire assolutamente quello che scrivo e canto. I libri, soprattutto in questo terzo album, sono stati certamente una grande fonte di ispirazione, ma per parlare poi del mio personale modo di vedere le cose. A questo proposito una canzone che credo mi sia uscita particolarmente bene nel suo connubio tra forma e sostanza è Le città invisibili, che ho scritto ovviamente riprendendo il meraviglioso testo di Italo Calvino e le sue atmosfere eteree e visionarie, ma per parlare degli invisibili dentro le città, narrare storie di marginalità, di scarto, di vite reali in luoghi reali, accomunate dai sentieri immaginari della mente, dalla voglia di ricominciare daccapo.
Il mito di Sisifo, così come narrato da Albert Camus, ti accompagna dal primo album. Nel risvolto di copertina di Eppur bisogna andare c’era la citazione “Il faut imaginer Sisyphe heureux” e Un altro equilibrio si chiude con la traccia Sisifo, nella quale si parla della bellezza recondita in ogni condizione, se si impara ad accettare il proprio fardello, la propria sofferenza. Vuoi dire qualcosa in merito?
Se c’è un pensiero di fondo che lega tutti e tre gli album è proprio questa figura, che ho voluto finalmente nominare ed illuminare in questo ultimo lavoro in cui parlo della ricerca di equilibrio, che per me scaturisce non dalla pace dei sensi, che è quanto di più lontano dalla mia visione del mondo, ma dalla sofferenza, dal dolore, dal peso che ognuno di noi porta con sé. L’equilibrio che io descrivo non ha nulla di mistico, né di pacificato, bensì è una stabilità precaria inseguita con dolore e di continuo per la sua natura precaria. C’è sempre uno sbilanciamento nel moto e nel nostro procedere è inevitabilmente insito il rischio di perdere l’equilibrio e di qui la necessità di cercarne subito un altro per non impazzire. Ho voluto dedicare una canzone ad uno dei libri che hanno segnato la mia vita, Il mito di Sisifo di Camus, per l’appunto. In particolare mi ha sempre molto colpito la conclusione di questo testo, che a mio avviso unisce mirabilmente prosa, poesia e filosofia, in quanto rischiara con una nuova luce la condizione di Sisifo,
costretto a spingere un masso sulla montagna per l’eternità, e le dona una nuova e altra prospettiva dopo tutte le considerazioni fatte nelle pagine precedenti. Sisifo, divenuto ormai consapevole delle ragioni che lo hanno condannato a questo destino, inizia finalmente a godersi il paesaggio e a rendersi conto che c’è molto di bello nella sua condizione, che è di abbandono e di libertà, in quanto liberazione da un divino inesistente. Se ci rendessimo conto che non esiste un senso alla nostra sofferenza se non quello che decidiamo di darle, ci sentiremmo liberati e non condannati nella nostra vita. Credo che questo sia un grande insegnamento che possa trovare applicazione concreta e alleggerire così le nostre giornate.
Ho avuto il piacere di trascorrere una piacevolissima ora in compagnia di Alessandro e di intervistarlo in merito a questa imminente pubblicazione. Ecco, nero su bianco, le mie domande e le sue ovviamente eretiche e poetiche risposte.
Ciao Alessandro, era il 2013 l’anno in cui usciva il tuo primo album, Eppur bisogna andare, prodotto da Giorgio Cordini, che ti è valso il premio Beppe Gentile 2014 come migliore album d’esordio. Nel novembre 2015 è uscito Eresie, un concept album prodotto con la collaborazione di Giorgio Cordini e Taketo Goahara, al quale hanno collaborato numerosi grandi artisti. Eresie è rientrato tra i 50 finalisti per la Targa Tenco 2016 come miglior disco assoluto, e il pezzo Comuñao Liberação tra i 50 brani finalisti perla categoria miglior canzone. Nel 2017 con Cresceremo anche noi sei stato tra i 4 vincitori del premio Musicultura in diretta su Rai1. Ti saresti aspettato un così grande consenso di critica e di pubblico?
Grande consenso è un concetto sempre relativo. Indubbiamente per essere un cantautore che fa della musica che non può essere considerata mainstream, sono sicuramente molto contento per tutto quanto è accaduto intorno ai miei due album precedenti. Il primo è stato completamente autoprodotto e ai tempi non avevo nemmeno la consapevolezza di cosa volesse dire promuovere un disco ed ha fatto da solo la sua strada e mi ha dato numerose soddisfazioni. Quando ho invece inciso Eresie, il secondo album, ero un pochino più consapevole di tutte le dinamiche che stanno intorno all’uscita di un album. Il tour è stato davvero un bellissimo momento della mia vita.
Ti avevo intervistato poco dopo la pubblicazione di Eresie e ti eri detto estremamente soddisfatto, molto contento del tuo secondo album, delle tracce, degli arrangiamenti e di tutto il lavoro di limatura di ogni brano che hai svolto avvalendoti di importanti collaboratori, alcuni dei quali ti hanno affiancato anche in questo ultimo disco. Puoi dirti altrettanto appagato da Un altro equilibrio?
Sì, sono molto contento di questo mio terzo album. Questa volta ho scelto di registrare il disco in un altro modo. Con Eresie c’era stato un lavoro di full immersion insieme a Giorgio Cordini e Taketo Gohara, che ci ha visti chiusi in diversi studi di registrazione per tre intensissime settimane. Stavolta invece ho lavorato principalmente fianco a fianco con Alberto Venturini, che è il batterista della mia band, ma è anche fonico e co-produttore, e abbiamo deciso di prendere le cose con più calma, allungando i tempi di registrazione in modo da lasciare sedimentare un po’ i brani ed è stata un’esperienza che mi è piaciuta molto e ho trovato estremamente proficua, perché ho potuto di volta in volta riascoltare con attenzione le tracce registrate e risentirle a distanza di qualche tempo, il che ha dato una nuova e più chiara messa a fuoco ai pezzi.
Hai avuto quindi un ruolo più incisivo e di primo piano nella fase di realizzazione di questo album?
In realtà mi sono riservato sempre l’ultima parola in ognuno dei miei album. I pezzi partono da mie idee, mie ipotesi. Poi però si tratta sempre di collaborazioni. Nel primo album con Giorgio Cordini, nel secondo con Giorgio e Taketo Gohara e in quest’ultima esperienza c’è stata una collaborazione continua e un confronto sempre aperto tra me e Alberto. In tutti e tre i casi mi sono trovato molto bene e mi sono sentito
a mio agio e libero di esprimermi. Diciamo che la base di partenza per ogni traccia sono sempre pezzi registrati con chitarra e voce, scritti da me, e poi iniziano il confronto e lo scambio di idee.
Li scrivi qui a casa tua solitamente?
Dipende. Non ho e non ho mai avuto un luogo fisso o privilegiato per la composizione.
Che e quanta importanza hanno il viaggio e l’incontro con altre culture nella tua scrittura?
Sicuramente hanno una grande influenza. Questo terzo disco è indubbiamente il più introspettivo dei tre ed è quello maggiormente influenzato dalla filosofia e dalla letteratura e quindi da viaggi non solo fisici, ma anche e soprattutto mentali. In questo album sono citate situazioni relative a quattro continenti, ma nonostante ciò è un album che definirei più intimista.
Sì, in effetti ascoltandolo con attenzione, si avverte che non è quasi distinguibile il confine tra il privato e il pubblico. I due piani sconfinano continuamente uno nell’altro. Come sono nate queste 10 tracce?
Questo terzo album è un disco che ho scritto in un periodo difficile – iniziato dopo una stagione pienamente soddisfacente della mia vita, come quella del tour di Eresie – una fase di bilanci e di cambiamenti politici, di accadimenti che io ho vissuto profondamente come frustrazioni dal punto di vista politico ed esistenziale.
Per la mia forma mentis quello che accade politicamente nel mondo che mi circonda si riflette direttamente nella mia vita, influenza il mio umore e le mie giornate. In questi ultimi anni sono successe cose che e mi hanno spesso portato e sentirmi frustrato nel mio desiderio di un mondo diverso, a considerare tutti i miei sforzi come vani e ciò mi ha spinto a ricercare la solitudine anche attraverso determinati tipi di viaggi.
Questi brani sono il riflesso di questo periodo e perciò sono meno festosi, più introspettivi per certi versi, ma mai rassegnati. Il pretesto della fotografia di mio padre a testa in giù nel suo vestito della domenica, in una posizione di equilibrio sovvertito che mostra la possibilità di far convivere le nostre “contraddizioni”, mi
ha dato modo di ragionare su ricerche di equilibri su vari fronti, dal pubblico al politico, dalla relazione privata a quella strettamente personale.
Dong Van, la seconda traccia di Un altro equilibrio parla di un viaggio nell’Ha Giang, sul confine tra il Vietnam e la Cina. Ci sei stato? La canzone parla di sassi che segnano il confine tra due culture, tra due mondi, tra popolazione autoctona e turisti. L’esperienza che descrivi è realmente accaduta?
Sì, ho vissuto questa bellissima esperienza di un viaggio da solo in Vietnam e poi da lì, in compagnia di un amico che ho incontrato e che avevo conosciuto in Perù, ci siamo spinti in moto verso nord fino al confine cinese. La scena che descrivo in modo velato nel brano è quella che mi ha dato l’input per scrivere questo
pezzo. Stavamo passando nelle campagne dell’Ha Giang, in un’atmosfera di estrema pace e tranquillità, e abbiamo visto in un campo una famiglia china a raccogliere riso. Ad un certo punto un bambino, che avrà avuto più o meno cinque anni, ci ha lanciato un sasso stizzito. È stata una scena molto forte, perché ha rotto per un momento quel mare di tranquillità agreste entro un ambiente che sembrava incontaminato dal turismo. Quel gesto ha marcato la nostra estraneità a quel posto, il nostro essere in un certo senso “fuori luogo”.
A proposito di estraneità, mi chiedo quanto la tua esperienza di lavoro nell’ambito del progetto S.P.R.A.R. (Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e i Rifugiati) contribuisca a dare forma alla tua musica e ai tuoi testi. Penso a tracce come Lo Sciamano bianco e a Tirailleurs.
Lo Sciamano bianco è un brano nato proprio nel contesto del progetto S.P.R.A.R. per il quale lavoro ed è una storia vera messa in versi e in musica, che mi è capitato di vivere direttamente. Parla del rapporto di rispetto reciproco e stima, nato tra un ragazzo maliano e uno psicologo mio amico, scomparso prematuramente e improvvisamente due anni fa all’età di 29 anni e che ho chiamato scherzosamente “lo sciamano bianco”. Grazie al percorso di cura intrapreso con lo psicologo, questo ragazzo maliano è riuscito a ritrovare un “equilibrio” e a seguire la sua strada. In un momento in cui questi progetti, questi tipi di tutela e di cura vengono messi sotto attacco e considerati “orpelli per buonisti”, in cui non si dà valore a questi servizi che seguono e integrano persone che poi si troveranno a vivere nel nostro paese, volevo ricordare questo mio amico e portare alla luce un sistema di cura e di aiuto che è stato smantellato.
Inoltre avevo voglia di parlare di Africa anche per ragioni prettamente politiche. L’idea di scrivere una canzone sui Tirailleurs deriva dalla mia profonda convinzione che determinate dinamiche si possano scardinare soprattutto a partire dalla conoscenza. Mi preme fare memoria e riconsiderare quali sono stati i processi che hanno portato ad un impoverimento culturale e materiale di determinate aree del mondo. Mi interessano più gli aspetti politici che quelli etici e caritativi. L’Europa ha fatto molto di buono nella storia per quanto riguarda la questione dei diritti, ha anche però devastato e saccheggiato numerose aree del mondo e ha fatto delle cose con le quali non abbiamo mai fatto del tutto i conti. A me le sterili banalizzazioni non bastano e ho cercato di portare alla luce storie molto significative, che con la loro testimonianza possano dire qualcosa di diverso rispetto a ciò che oggi viene affermato politicamente.
In questo album emergono molto di più i tuoi riferimenti letterari. Anche gli scrittori potrebbero essere definiti maestri, e a te che sei il portavoce delle eresie chiedo se condividi una affermazione di Massimo Recalcati secondo cui “siamo la somma dei maestri che abbiamo avuto, ma anche una deviazione eretica dei nostri maestri”. Nel momento in cui rievochi determinate atmosfere letterarie e le rivivifichi donando loro la tua cifra stilistica stai compiendo un gesto eretico di affermazione della tua singolarità prendendo
in consegna una eredità?
Per me scrivere è innanzitutto un’attività terapeutica, della quale sento la necessità e quando scelgo di mettere una canzone in un disco è perché voglio dire assolutamente quello che scrivo e canto. I libri, soprattutto in questo terzo album, sono stati certamente una grande fonte di ispirazione, ma per parlare poi del mio personale modo di vedere le cose. A questo proposito una canzone che credo mi sia uscita particolarmente bene nel suo connubio tra forma e sostanza è Le città invisibili, che ho scritto ovviamente riprendendo il meraviglioso testo di Italo Calvino e le sue atmosfere eteree e visionarie, ma per parlare degli invisibili dentro le città, narrare storie di marginalità, di scarto, di vite reali in luoghi reali, accomunate dai sentieri immaginari della mente, dalla voglia di ricominciare daccapo.
Il mito di Sisifo, così come narrato da Albert Camus, ti accompagna dal primo album. Nel risvolto di copertina di Eppur bisogna andare c’era la citazione “Il faut imaginer Sisyphe heureux” e Un altro equilibrio si chiude con la traccia Sisifo, nella quale si parla della bellezza recondita in ogni condizione, se si impara ad accettare il proprio fardello, la propria sofferenza. Vuoi dire qualcosa in merito?
Se c’è un pensiero di fondo che lega tutti e tre gli album è proprio questa figura, che ho voluto finalmente nominare ed illuminare in questo ultimo lavoro in cui parlo della ricerca di equilibrio, che per me scaturisce non dalla pace dei sensi, che è quanto di più lontano dalla mia visione del mondo, ma dalla sofferenza, dal dolore, dal peso che ognuno di noi porta con sé. L’equilibrio che io descrivo non ha nulla di mistico, né di pacificato, bensì è una stabilità precaria inseguita con dolore e di continuo per la sua natura precaria. C’è sempre uno sbilanciamento nel moto e nel nostro procedere è inevitabilmente insito il rischio di perdere l’equilibrio e di qui la necessità di cercarne subito un altro per non impazzire. Ho voluto dedicare una canzone ad uno dei libri che hanno segnato la mia vita, Il mito di Sisifo di Camus, per l’appunto. In particolare mi ha sempre molto colpito la conclusione di questo testo, che a mio avviso unisce mirabilmente prosa, poesia e filosofia, in quanto rischiara con una nuova luce la condizione di Sisifo,
costretto a spingere un masso sulla montagna per l’eternità, e le dona una nuova e altra prospettiva dopo tutte le considerazioni fatte nelle pagine precedenti. Sisifo, divenuto ormai consapevole delle ragioni che lo hanno condannato a questo destino, inizia finalmente a godersi il paesaggio e a rendersi conto che c’è molto di bello nella sua condizione, che è di abbandono e di libertà, in quanto liberazione da un divino inesistente. Se ci rendessimo conto che non esiste un senso alla nostra sofferenza se non quello che decidiamo di darle, ci sentiremmo liberati e non condannati nella nostra vita. Credo che questo sia un grande insegnamento che possa trovare applicazione concreta e alleggerire così le nostre giornate.
La mia piacevolissima ora in compagnia di Alessandro si è chiusa con questo invito ad immaginare Sisifo felice e a seguirne l’esempio. Io invito voi ad acquistare e ascoltare questo meraviglioso e ricco album e ad andare a sentire Alessandro Sipolo dal vivo.
Ecco le prime date del tour 2019 di Un altro equilibrio:
1 febbraio: Latteria Molloy (Brescia)
23 febbraio: Indie Panchine @ Sparwasser (Roma)
27 febbraio: Off Topic (Torino)
2 marzo: Officine Meca (Ferrara)
21 marzo: Maite (Bergamo)
28 marzo: Mare culturale urbano (Milano)
Intervista a cura di Ottoboni Valentina
Pics by Daniele Di Chiara