CRISTIANO GODANO – Intervista sul primo disco solista
In occasione dell’uscita del suo primo album solista, “Mi ero perso il cuore”, ho raggiunto telefonicamente il gentilissimo Cristiano Godano, voce, chitarra e anima dei Marlene Kuntz.
Ciao Cristiano, innanzitutto bentornato sulle pagine di Tuttorock e complimenti per il tuo bellissimo album di debutto solista “Mi ero perso il cuore”, dov’era finito questo cuore e come l’hai ritrovato?
Ciao Marco, grazie, è un piacere. Dov’era finito non saprei, sicuramente si era dileguato, questa immagine è da inserire nel contesto di una intuibile lotta che si instaura tra corpo e mente quando uno dei due eccede e prevalica rispetto all’altro. In genere, quando la mente prevale, vuol dire che diventa ossessiva e i pensieri si fanno assillanti, quotidiani, si entra in una situazione di sudditanza non augurabile, diventi uno che si lascia trasportare da questi vortici. Ritrovare il cuore pare essere a tutti gli effetti una sorta di antidoto importante per ritornare alla dimensione primordiale delle nostre emozioni, facendo in modo che si scacci questa ragnatela intessuta dalla mente che diventa un problema. Quando un cuore viene ritrovato significa rimettere in equilibrio questa dicotomia cuore/mente per tornare ad una dimensione più sana dell’esistenza.
Utilizzando il titolo del brano di apertura dell’album, “La mia vincita”, posso dire che uscire con un album che non ha nulla di commerciale in questo periodo in cui l’emergenza sanitaria non è ancora rientrata e l’incertezza globale regna è stata una sorta di scommessa vinta da parte tua?
Siamo agli inizi, il disco è uscito venerdì scorso, ricevo con molto piacere ottimi feedback, chi lo ascolta lo sta gradendo molto ed un certo tipo di mia speranza si sta verificando. Ho proprio immaginato che questo potesse essere un disco dal forte potere empatico e che non nascondesse il problema della vulnerabilità che tutti abbiamo patito a causa del virus. È una forma d’arte lontana da quella banalità dell’andrà tutto bene che non era esattamente lenitiva perchè i problemi a volte bisogna riuscire ad affrontarli, questo è un disco che li affronta e non fa finta che tutto vada bene, credo quindi che ci siano un po’ di persone che possano gradire questa terapia d’urto.
Infatti il disco parte con un messaggio positivo, “La mia vincita”, poi attraversa il percorso tortuoso della vita di un uomo e si conclude con le positive “Nella natura” e “Ma il cuore batte”, c’è un equilibrio tra i vari stati d’animo.
Sì, la gente si è sempre accorta che i Marlene Kuntz sono una band che ha un fondamento artistico genuino, questo disco si prende la briga di raccontare e non ha paura di farlo, sono d’accordo con te, c’è “La mia vincita” poi c’è tutto un percorso tortuoso per poi tornare ad una visione illuminata, è come se un romanzo si ponesse l’obiettivo di raccontare un’esistenza che passa attraverso un po’ di su e giù esistenziali e che poi trova la sua via per una sperabile soluzione, diciamo che non è una roba pop. Il modo pop di fare la musica non prevede quasi mai visioni negative, al pop conviene sorridere sempre, la gente spesso le sue menate le vuole nascondere quando riesce a farlo. Ci sono invece persone che, al contrario, preferiscono sondarle per capirle meglio.
Tra i produttori del disco e alle prese con il basso, troviamo Gianni Maroccolo, che per voi è stato cosa? Dimmi tu un termine. Come sei arrivato a lavorare nuovamente con lui?
È stata la chioccia dei Marlene Kuntz, ha fatto per noi tantissime cose sotto tanti punti di vista, è una persona amica e insostituibile. Mi permetto però, visto che mi telefoni dall’Emilia Romagna, di non dimenticare di citare anche i tuoi corregionali Ustmamò, ovvero Luca Rossi e Simone Filippi.
Infatti li avevo inseriti nella mia domanda successiva, mi hai anticipato!
(ride – ndr) Con Gianni ci conosciamo da minimo 25 anni, speravo che potesse essere felice di lavorare al disco con me e così è stato, poi parlandone ci sono venuti in mente Luca e Simone, quest’ultimo suona con Gianni nelle sue dimensioni solitarie. Sono molto felice di essermi imbattuto in loro, sono due musicisti straordinari nonchè due persone notevoli.
Si è creata una sorta di mini reunion del Consorzio Produttori Indipendenti che caratterizzava la musica italiana indie degli anni 90?
È successo non all’insegna della nostalgia ma in maniera casuale, è un po’ come se io mi fossi sentito a casa, il che è meglio perchè, se io intraprendo un’avventura solitaria, preferisco contornarmi di persone con con cui penso di poter instaurare un rapporto amicale oltre che artistico e professionale. Non è una garanzia necessaria ma se c’è aiuta ancor di più a creare un’atmosfera magnifica in studio.
Ogni decennio ha un suo perchè, ma quanto sono stati importanti gli anni 90 per te e per la musica in generale?
Eh li ho vissuti nel pieno delle mie energie sia fisiche che mentali, quelle mentali ci sono ancora, per ora reggo (ride – ndr), ero un trentenne, mi accadevano cose con i Marlene che hanno rappresentato la pienezza della mia condizione esistenziale. Musicalmente sono sicuramente anni che hanno lasciato il segno, sono accadute delle cose molto favorevoli al rock, fu l’epoca del grunge, tutta una certa onda musicale era nelle orecchie della gente laddove ora ci sono il rap, la trap, come è giusto e normale che sia.
A proposito di musica indie, come consideri il fatto che oggi il termine venga attribuito ad un movimento ben lontano da quello che vi vedeva protagonisti più di vent’anni fa?
Non me lo spiego, qualcuno mi aveva fatto notare che potrebbe essere semplicemente legato filologicamente ed eticologicamente alla parola indie, ovvero all’abbreviazione di indipendenti. Questo di oggi, che secondo me sarebbe più giusto chiamarlo x pop, nacque come musica autoprodotta, era il momento in cui si cominciavano a sperimentare questi percorsi solitari, internet ormai aveva fatto capire che stava distruggendo un mondo. I primi ragazzi, probabilmente i Thegiornalisti, hanno iniziato a fare qualcosa di autoprodotto capendo che poteva convenire e, con le case discografiche anche loro con la canna alla gola, era giusto muoversi verso quella direzione. Negli anni 90 per me indie significava tutto ciò che non fosse pop, ognuno poi aveva la sua visione. Indie non erano soltanto le etichette indipendenti, c’era un’estetica musicale, per me indie erano i Sonic Youth, poi loro firmarono per la Geffen e ci furono quelli che borbottavano e dicevano che non erano più indie. In realtà sono tutte stronzate, bullshit direbbero gli inglesi, di sicuro non riesco a capire come quella di adesso possa essere considerata indie se la penso paragonata a quella degli anni 90, insomma, o è indie ora o lo era quella di allora, chiamarle entrambe nello stesso modo mi sembra una cosa strana.
Tornando al tuo disco, il primo singolo è “Ti voglio dire”, posso considerarlo un vero e proprio inno all’amicizia?
Assolutamente sì, è proprio quello lo scopo della canzone.
Il secondo singolo estratto dall’album è “Com’è possibile”, del quale è stato girato anche un video. Può essere associato a questo momento storico? Mi spiego meglio, l’umanità è stata ed è tuttora provata da una pandemia globale che all’inizio sembrava aver fatto cambiare un po’ direzione al vento dei comportamenti generali delle persone, ora mi sembra che siamo tornati a comportarci ancor peggio di prima, sei d’accordo?
Mi chiedo “com’è possibile”, certo che sono d’accordo con te. Non ho mai veramente pensato che l’umanità sarebbe migliorata, c’è stata un po’ di speranza ma non ero molto ottimista, per diventare migliori bisognerebbe cambiare qualcosa nel nostro stile di vita, alludo al riscaldamento globale. Due mesi e mezzo di lockdown hanno mandato nel panico il mondo, si è cominciato a pensare che l’assenza di produzione e lavoro potesse essere un problema, è ovvio, lo so molto bene, penso che l’umanità sia in un cul-de-sac, se si cambia qualcosa è un casino per il contesto sociale in cui ci troviamo e il contesto sociale stesso è talmente troppo avanti che penso sia difficile tornare indietro. Ci vuole del tempo per lavorare con le energie rinnovabili, i politici però non aiutano, ci sono quelli che negano i problemi climatici, primo tra tutti il più balordo, Trump, poi Bolsonaro, e anche qui in Italia abbiamo movimenti come la Lega totalmente disinteressati al problema quindi sì, hai ragione, forse siamo messi peggio di prima.
Veniamo al problema dei concerti che sono la forma più cospicua di sostentamento per un artista, se dovesse continuare questa situazione, con il Governo che si è espresso molto male nei vostri confronti, dicendo che fate divertire, come vi comporterete voi musicisti?
Non riesco a dire: “si è comportato molto male”, quando Conte ha detto quelle parole non le ho pensate in maniera maliziosa o negativa, semplicemente ho pensato che lui abbia detto quello che pensa il popolo medio italiano, ovvero che i musicisti sono intrattenitori, infatti l’IVA sui dischi è al 22% mentre sui libri è al 4%, quindi significa che i libri sono considerati cultura e la musica no, la musica è considerata solamente intrattenimento. Il problema invece c’è e, se questa cosa dovesse durare ancora molto, c’è una certa categoria di musicisti che patirebbe molto. I musicisti non sono solo quelli a cui pensa Conte, c’è tutta una categoria non mainstream, penso ai musicisti jazz, ai musicisti del rock indipendente, se ancora esiste, dei quali faccio parte anch’io che sono del 1966. Ci sono tutti questi musicisti che rimangono senza lavoro e la situazione è un po’ come se un impiegato non lavorasse per un anno. Ovvio che, se pensi ai nomi grossi, possono stare due anni lontani dai palchi perchè hanno comunque buone riserve, ma i musicisti sono molti di più di quelli lì.
Ti sei fatto un’idea di come potrai presentare in sede live il tuo album, lo farai da solo o sarai accompagnato da una band?
L’ideale, che spero prima o poi possa succedere, è fare questo concerto nei teatri con la band del disco, sarà un concerto magnifico e non vedo l’ora che accada. Siamo però tutti in attesa, spero anche di poterlo suonare in versione solitaria perchè queste canzoni nascono solitarie e credo siano belle anche così, è chiaro che con la band diventa un po’ più avvolgente la cosa. Posso immaginare che, in situazione solitaria possa essere meno difficile fare performance in pubblico davanti ad un pubblico non assembrato, io posso suonare davanti a 200 persone sparpagliate, cosa che, per fare un esempio enorme, uno come Ligabue non può fare. I concerti grossi, finchè non si potrà tornare a far ammassare la gente, non si potranno fare.
I brani “Panico” e “Lamento del depresso” sono quelli che più si avvicinano a sonorità tipiche dei Marlene Kuntz, gli altri invece sono molto più orientati verso uno stile folk alla Bob Dylan o alla Neil Young, per quanto tempo li hai tenuti nel cassetto per un progetto solista?
Tre anni e mezzo fa circa ho iniziato a suonicchiare, ho tirato via 50 o 60 spunti poi, quando i lavori per il disco sono iniziati, mi sono confrontato due o tre mesi prima con Gianni Maroccolo, ho carpito quelli che più piacevano a lui e, fra quelli, ho scelto quelli che sono poi finiti nel disco. In questo momento nel cassetto ci sono almeno una trentina di spunti e secondo me dietro ad almeno una decina di essi si celano ottime possibilità.
Ci sono anche due brani dedicati al rapporto padre/figlio, e li hai intitolati “Padre e figlio” e “Figlio e padre”. Tu hai un figlio di 22 anni, Enrico, che rapporto hai con lui, cerchi di indirizzarlo verso un certo tipo di musica?
L’imprinting gliel’ho dato quando era nella pancia della mamma, ascoltava cose, si dice che i neonati possano sentire e captare segnali che riescono a forgiarli. L’ho fatto in maniera maliziosa sapendo che questo poteva accadere, quindi ha un imprinting di un certo tipo, poi, quello che vuole ascoltare ora è una faccenda del tutto sua, come tutti i ragazzi della sua età ascolta rap e per me non c’è nessun problema. Non sono uno di quei genitori che, brandendo un disco come fosse la Bibbia dicono “Questa è la vera musica, questo è il rock”, non faccio parte di quella categoria, mi sta molta simpatica ma non faccio così con mio figlio.
Tu sei cantautore, scrittore, docente universitario, attore, opinionista, c’è qualcos’ altro che non hai fatto e che vorresti fare nella vita?
Attore è troppo generoso, non mi credo un attore, opinionista sì, sto scrivendo per Rolling Stone, mi manca di fare il giudice a X-Factor.
Sarebbe una gran bella cosa per la musica!
Per le mie tasche sarebbe una bella cosa sicuramente (ride – ndr).
Grazie per l’intervista Cristiano, vuoi dire qualcosa ai tuoi fan e a coloro che scelgono ancora di ascoltare musica senza seguire le tendenze del momento?
Sono persone preziose, sono quelle che poi permettono a noi musicisti rock di continuare di fare le nostre cose. Le nostre cose dipendono da quello, da un ascolto un po’ più attento, non superficiale, non compulsivo, non basato su un click in streaming veloce dove dopo mezza canzone passi ad un’altra cosa. Il nostro modo di fare dischi è pensato alla vecchia maniera, volenti o nolenti, non si tratta di essere nostalgici a tutti i costi. Mi rivolgo quindi a queste persone ringraziandole. Ciao!
MARCO PRITONI
Sono nato ad Imola nel 1979, la musica ha iniziato a far parte della mia vita da subito, grazie ai miei genitori che ascoltavano veramente di tutto. Appassionato anche di sport (da spettatore, non da praticante), suono il piano, il basso e la chitarra, scrivo report e recensioni e faccio interviste ad artisti italiani ed internazionali per Tuttorock per cui ho iniziato a collaborare grazie ad un incontro fortuito con Maurizio Donini durante un concerto.