LUCIO LEONI – Intervista all’eclettico e visionario cantante romano
Ho raggiunto telefonicamente Lucio Leoni, brillante, eclettico e visionario cantante romano che, con il mix di generi musicali che caratterizzano i suoi lavori, ha dato vita al suo interessante nuovo album in studio, “Dove sei pt.1”. Ecco cosa mi ha raccontato.
Ciao Lucio, benvenuto sulle pagine di Tuttorock, come sta andando per te questa ripartenza post quarantena?
Ciao Marco, piacere! Paradossalmente stavo meglio nella fase 1, almeno eravamo tutti deresponsabilizzati, adesso c’è questa sorta di ripartenza un po’ a metà, da qualche parte sei chiamato a metterti in moto, a fare delle cose, a ricominciare a vivere. C’è però metà dell’estistenza che comprende anche chi si occupa di musica come me che è ancora bloccata e si scontra ogni giorno con l’impossibilità di fare cose.
Hai praticamente risposto alla mia prossima domanda… Sono state aperte palestre e piscine ma dello spettacolo nessuna traccia, come vivi questa cosa?
Eh la vivo male. Vedi manifestazioni libere in cui sono tutti assembrati e noi non possiamo fare concerti, per carità, il momento è difficile, ci mancherebbe, comunque è tosta. Per un po’ di tempo sarà molto triste, siamo il nemico pubblico numero uno da un certo punto di vista, siamo aggregatori sociali ed arriviamo per ultimi, non mi sorprende ed è anche normale in un’emergenza sanitaria, però bisogna cominciare ad inventarsi qualcosa.
Il tuo bellissimo nuovo album “Dove sei pt.1” è uscito circa un mese fa, che riscontri stai avendo?
Molto buoni, più di quanto avessi sperato! Dal punto di vista degli addetti ai lavori mi sembra che stia andando veramente molto bene, stanno uscendo bellissime recensioni. Anche dal punto di vista degli ascolti sta andando bene. Ho sentito che in quarantena gli ascolti in streaming sono diminuiti in generale col fatto che i ragazzi non andavano a scuola e non c’era movimento, i numeri miei, però, pur sempre piccoli, sono saliti rispetto alle mie medie, mi fa molto piacere ciò.
La seconda parte verrà pubblicata in autunno, io, da feticista delle forme fisiche della musica ti chiedo, uscirà anche in formato cd e LP unita alla prima parte?
Se ce la facciamo tra poco uscirà il cd della prima parte e a ottobre uscirà il cd della seconda parte, successivamente uscirà il vinile con le parti unite. Avrei voluto fare uscire solo il vinile ma ho dovuto mediare per esigenze di mercato.
Come mai hai scelto di dividere in due parti questo tuo nuovo lavoro?
Perchè ascolto molto quello che mi viene detto dagli addetti ai lavori e da chi mi viene ad ascoltare. Mi sono reso conto nel corso degli anni di come il mio approccio alla scrittura non sia semplicissimo, non scrivo canzoni leggere ed ho un approccio alla scrittura un po’ nervoso, te ne sarai accorto. Abbiamo lavorato su 16 brani, quando lavori in studio sai che qualche brano morirà durante la lavorazione, rimarrà indietro e non troverà la quadra giusta, invece questa volta ci piacevano tutti, solamente che mettere così tanti brani su un disco solo ci sembrava un po’ antipatico nei confronti dell’ascoltatore, considerando anche i nuovi modi di ascolto. Già il fatto di ragionare su un disco di questi tempi è difficile, si procede quasi solo per singoli, per cui, dividendo a metà il lavoro, abbiamo pensato di dare più spazio alle canzoni.
Ti sei avvalso della collaborazione di tre artisti diversissimi tra loro, il rapper C.U.B.A. Cabbal nel brano “Il sorpasso”, il cantautore napoletano Francesco Di Bella in “Dedica” e il drammaturgo e attore Andrea Cosentino nella conclusiva traccia “Mi dai dei soldi”, mi puoi dire come sei arrivato a scegliere loro?
Andrea è un amico da tempo, io sono un appassionato di teatro e ogni volta che lui va in scena mi capita di andarlo a vedere perchè penso sia una delle firme più geniali del teatro contemporaneo. Un anno fa sono andato a vedere un suo spettacolo che si chiama “Kotekino Riff”, alla fine di quello spettacolo c’è il monologo che poi è diventato “Mi dai dei soldi” e in quella occasione mi ha fulminato. Gli ho chiesto di fare qualcosa di più, mi sembrava che l’argomento fosse centrale anche per quanto riguarda il mondo della musica, di come viene inquadrata l’arte, ed è diventato di grande attualità con questa pandemia anche se non me lo sarei mai aspettato. È interessante come le canzoni cambino a seconda di quello che ci succede intorno. C.U.B.A. e Francesco sono due idoli della mia adolescenza e entrambe le canzoni ad un certo punto, mentre lavoravo, sentivo che mi chiedevano qualcosa di più. “Dedica” è forse uno dei brani più pop del disco e mi serviva una voce che avesse la profondità e la sensibilità in grado di portarla su un’altra dimensione. Francesco secondo me ha quel tipo di vocalità light ed attenzione pura quando appoggia le parole sulla musica, per cui l’ho chiamato e per compassione mi ha detto sì (ride, ndr). Con C.U.B.A. invece c’è stata la telefonata tipica del bambino all’idolo, non ci conoscevamo, ho rimediato in maniera carbonara il suo numero di telefono, l’ho chiamato, mi sono presentato, gli ho spiegato l’idea e lui è stato incredibile, nel giro di due settimane ha tirato fuori delle rime perfette che da qualche parte mi aiutavano ad entrare in contatto con il mondo del rap che affronto sempre con rispetto perchè lo amo molto ma non mi sento di farne parte a pieno titolo.
Ed è venuto fuori un gran pezzo rap!
La old school, il combat rap degli anni 90 (ride, ndr). C.U.B.A. ha una storia di coerenza politica nelle rime perfetta per questo brano, per cui quando mi ha detto di sì mi sono sciolto.
Il fatto che tu abbia scelto tre artisti così diversi tra loro e le tante influenze musicali presenti nei tuoi lavori fanno pensare che tu sia un ascoltatore di musica a 360 gradi, è così?
Sì, confermo, è un po’ croce e delizia, ascolto tutto in maniera molto curiosa, molti mondi mi piacciono tantissimo e altri no, ascolto anche tanta merda per capire dove stiamo andando e cosa sta succedendo. Questo si riflette nella mia scrittura, perchè quello che mi piace finisce in qualche modo in quello che scrivo e non è detto che sia un punto a mio favore, non c’è proprio un’unità di fondo di generi nella mia musica.
Il brano con cui si apre il disco, “Il fraintendimento di John Cage” omaggia un grandissimo della musica, chi è per te John Cage?
John Cage è un punto centrale di riflessione indipendentemente dalla musica, al di là dell’aspetto del compositore lui è diventato un intellettuale a livello assoluto sul modo di approcciarsi al mondo dell’arte. Per quanto riguarda la composizione, la parte formale, tengo sempre ben presente il suo percorso perchè il lavoro sulle dinamiche è una delle cose che secondo me riesce ad aprire i canali emotivi di chi ascolta, per cui ragionare sempre sugli spazi pieni e quelli vuoti, sui silenzi e sui rumori, sul pianissimo e il fortissimo è una cosa per me centrale. Dal punto di vista metaforico era una figura che secondo me c’entrava molto con il tipo di domande che innescava quel brano perchè, avendo una visione così ampia dell’approccio alla cultura in termini assoluti, è stato più volte frainteso e rielaborato, quindi mi sembrava metaforicamente perfetto per raccontare quel brano.
In “Dedica” c’è un omaggio ai Bluvertigo, immagino che loro, con quei testi molto particolari, siano tra gli artisti che più apprezzi, vero?
Li ho ascoltati tantissimo, soprattutto quando vennero fuori, fu una rivelazione anche perchè, scoprire che si poteva fare filosofia cantando le canzoni, mi colpì parecchio, era una band incredibile dal punto di vista esecutivo, avanti di 20 anni su tutto il panorama musicale italiano, tant’è che all’epoca non furono capiti abbastanza. Quando lavori in maniera così intelligente sul contemporaneo rimani contemporaneo per sempre.
Uno dei brani che preferisco del disco è “Atomizzazione”, in cui spieghi il passaggio dall’analogico al digitale che è avvenuto tra la fine degli anni 90 e i primi anni del nuovo millennio, associandolo al processo dell’atomizzazione. Quanto tempo impieghi solitamente per scrivere brani così complessi e quanto tempo passi sui libri?
Eh, abbastanza (ride, ndr). Quel brano in particolare è stato tosto, ho dovuto studiare sui libri di chimica il processo di atomizzazione, poi ho dovuto tirare fuori la parte scritta in rima modificando quello che avevo letto e mi sono confrontato con amici ingegneri per chiedere loro se quello che avevo scritto fosse giusto e non attirasse le ire dei professionisti del settore. Quel brano parte dalla parola atomizzazione, utilizzata spessissimo per raccontare un modo di chiudersi rispetto al sociale, delle nuove generazioni col telefonino e col computer, lo sganciarsi da una collettività mi aveva incuriosito molto. Non conoscendo però il concetto di atomizzazione in termini scientifici, sapevo che avrei dovuto scrivere qualcosa su quella parola, per cui c’è stato un processo lungo di elaborazione per capire dove incasellarla, tanto per cominciare. Il passaggio dall’analogico al digitale è diventato il contesto e in mezzo c’è tutto il lavoro sull’aspetto chimico e fisico. Il campione fluido ovviamente diventa metafora ma in quel caso lì è tecnico come lo trovi scritto sui libri, è stato molto divertente lavorare a quella canzone ma ci sono voluti un paio di mesi per concluderla. È uno dei brani che in questo periodo mi fa soffrire di più, passa in rassegna tutta una serie di sconvolgimenti degli ultimi anni senza prendere in considerazione la pandemia, quindi ho la sensazione che possa essere un brano che verrà sconfitto dalla storia.
Dovrai scrivere un brano sulla pandemia al più presto!
Eh sì (ride, ndr).
Il brano “Treno” è una dedica al poeta e scrittore Gianni Rodari, quanto è stata importante per te la sua “Grammatica della fantasia”?
Tantissimo, quello è uno dei libri che puntualmente riprendo in mano, l’avrò letto 5 o 6 volte e ogni volta scopro cose nuove e non sono ancora convinto pienamente di averlo capito del tutto fino in fondo. Lui è una figura centrale del rapporto fantastico con le possibilità che ci regala questa lingua italiana, poco musicale ma piena di sfumature e di mondi da attraversare e che secondo me sfruttiamo poco. Dal punto di vista formativo è ancora un personaggio incredibile, ce ne fossero così.
Visto che si parla di fantasia, quali sono i tuoi più grandi sogni sia parlando di vita in generale che di musica?
Vorrei diventare un cappellaio, sto facendo dei corsi, questo è il mio più grande sogno, solo che non saprei come vivere, non credo che sia uno di quei mestieri molto remunerativi. Quello è un passaggio che mi sta stimolando tantissimo, l’idea di tirar fuori dal nulla un cappello è una cosa che mi piace molto. Dal punto musicale non ho grandissime ambizioni, affronto questo percorso con dei materiali che sono poco spendibili rispetto a quello che esplode di questi tempi, soprattutto in Italia, però mi piacerebbe molto continuare a fare quello che ho fatto finora, cioè andare a suonare anche in posti piccoli ma con gente che viene con la voglia di farsi raccontare delle storie. Mi sembra che sia un passaggio centrale per continuare a sentirci una comunità, una cosa che si sta un po’ perdendo. Quando uno muove il culo dal divano per andare a vedere un musicista dal vivo, indipendentemente dalla location, perchè quella roba gli interessa, è un qualcosa di molto prezioso, un po’ come succede nel teatro che non gode di grandissimi numeri ma dove si sta insieme e si vive un’esperienza insieme, cosa che in questo momento risulta un po’ difficile.
Quant’è difficile per un artista come te, che scrive testi impegnatissimi accompagnati da una musica altrettanto ricercata, affermarsi in un mondo in cui ormai prevale la superficialità?
È molto difficile, però secondo me il punto di partenza è cercare di evitare di cercare un’affermazione, il lavoro sull’arte è un lavoro in qualche modo speculativo, è ricerca, probabilmente siamo un pezzo dell’ingranaggio che mette in moto riflessioni di qualcun’altro che li porterà su un altro livello e avanti così. La differenza tra mercato e arte sta un po’ là, per cui affermarsi è una roba che interessa fino a un certo punto. Basterebbe camparci, ecco.
Grazie mille per il tempo che mi hai dedicato, vuoi dire qualcosa per chiudere questa intervista?
Voglio dire solo viva i Camillas e viva i fratelli.
MARCO PRITONI
Sono nato ad Imola nel 1979, la musica ha iniziato a far parte della mia vita da subito, grazie ai miei genitori che ascoltavano veramente di tutto. Appassionato anche di sport (da spettatore, non da praticante), suono il piano, il basso e la chitarra, scrivo report e recensioni e faccio interviste ad artisti italiani ed internazionali per Tuttorock per cui ho iniziato a collaborare grazie ad un incontro fortuito con Maurizio Donini durante un concerto.